Giorno 68 – Kirghisia “coast to coast”

22 agosto 2018, Bishkek-Osh (655 km. – tot. 24.115)

Partenza prima delle sette per fare in modo di arrivare ad Osh, dall’altra parte del Paese, prima che faccia buio. Nessun problema per uscire dal traffico cittadino visto che la maggior parte degli automobilisti sta entrando nella capitale mentre noi ne usciamo. Manca del tutto la segnaletica che ci possa aiutare a capire la direzione giusta e siamo costretti ad affidarci all’intuito e chiedere conferma ai passanti. Una volta fuori da Bishkek, dopo aver sbagliato almeno due volte strada, imbocchiamo quella giusta, come conferma il pedaggio di quasi cinque euro che ci viene chiesto per percorrere questa strada speciale. La particolarità di questo percorso è la presenza di due valichi montani di 3.300 metri e 3.200. La strada è aperta tutto l’anno ed è anche in buone condizioni! L’inizio del percorso è spettacolare, dato che si affrontano subito dei tratti in salita costante al 12%. Pochissimi i tornanti, piuttosto ci sono lunghe curve a largo raggio per favorire il traffico dei camion. Si risale prima la valle del fiume Kara-Balta e poi quella di un suo affluente, l’Abla. Ogni cambio di direzione corrisponde ad un nuovo panorama, ma la parte più spettacolare è il passaggio sopra le nuvole. Il finale è costituito da una stretta galleria di tre chilometri completamente satura di smog. Sull’altro versante scopriamo numerosi villaggi fatti delle tipiche tende, le yurte, i cui abitanti, oltre a controllare i pascoli, gestiscono attività di vendita e degustazione di prodotti tipici, ristorantini e addirittura alberghi nelle tende. Il sole illumina le vallate e regala colori molto vivaci. Se nella prima salita predominava il rosso della pietra, ora è il verde dei pascoli a fare da cornice.

Nella cima della seconda salita incontriamo Valentina, una ciclista italiana che ci chiama riconoscendo la targa familiare dell’Hilux. È di origine trentina e sta tornando in Italia direttamente dal Vietnam. Percorre in circa due anni l’intera Eurasia in bicicletta, quasi sempre in solitaria. Ci fermiamo alcuni minuti a parlare delle rispettive avventure, ma la sua è davvero più ecologica della nostra! Sia per Valentina che per noi comincia una lunga discesa di oltre cinquanta chilometri che ci riporta ad altezze moderate, con temperature che ritornano sopra i 30°. La seconda parte di strada è meno bella dal punto di vista naturalistico, ma interessante da quello energetico. Una serie di centrali idroelettriche sul fiume Naryn creano alcuni laghi artificiali di un azzurro molto forte a contrasto con il rosso e il marrone delle rocce attorno. La strada sale e scende attorno ai laghi e alle dighe fino al secondo punto di pedaggio, dove paghiamo altri quasi cinque euro. Impressionante vedere la differenza tra le zone verdissime nei pressi dell’acqua e tutto il resto decisamente arido.

Lasciato il fiume, la strada compie una serie di deviazioni innaturali a causa del confine con l’Uzbekistan, che costeggia l’asfalto. Siamo nella Valle di Fergana, uno dei puzzle geopolitici più complessi al mondo. Ai tempi dell’Unione Sovietica la strada entrava e usciva più volte dai due stati federati senza creare problemi a nessuno. Oggi per raggiungere Osh, a causa del confine, ci sono tre modifiche del percorso che allungano il cammino di circa centoventi chilometri. Assai curioso vedere come i fatti del 1991 abbiano diviso queste popolazioni lasciando in Kirghizistan una cospicua minoranza uzbeka e viceversa. A complicare il quadro ci sono anche numerose comunità tagike con lo stesso problema e separate dai connazionali da questo folle confine nel quale, come vedremo domani, ci sono anche numerose enclavi. Non è un caso che nella uzbeka Andjan e nella kirghisa Osh negli scorsi anni siano scoppiate rivolte che hanno portato a diversi sanguinosi scontri tra le due popolazioni. Il confine tra Kirghizistan e Uzbekistan è stato ufficialmente riaperto da pochi mesi e il nuovo presidente uzbeko sta cercando di accordarsi con i kirghisi per la definizione del pazzo confine.

L’ultima parte del viaggio ci vede attraversare una miriade di paesini pericolosissimi dove bambini, animali, guidatori indisciplinati mettono a dura prova la nostra pazienza. Procediamo con cautela anche a causa del fatto che qui non esiste l’assicurazione per l’auto e quindi ogni eventuale danno procurato o subito potrebbe generare grossi problemi. Poco prima di Osh superiamo il Kara-Darya, che pochi chilometri a valle, unendosi al già citato Naryn, crea il Syr-Darya, uno degli emissari del lago d’Aral. Il cospicuo prelievo d’acqua per le coltivazioni di cotone in Uzbekistan impedisce in molte annate al fiume di raggiungere ciò che resta del lago, contribuendo ad un disastro ambientale in atto da decenni.

Dopo tredici ore di viaggio, praticamente al tramonto, siamo finalmente ad Osh. Il traffico cittadino è quello tipico di una città araba con grande caos lungo le strade strapiene di negozi di ogni genere. Siamo alloggiati all’hotel Osh-Nuru, un residuo di epoca sovietica elegante e centrale. Infatti raggiungere a piedi la piazza principale con la relativa statua di Lenin è questione di pochi minuti. Questa sera ceniamo in un locale alla moda dove dopo le 22 comincia anche uno scatenato ballo tra i clienti. Il piatto tipico di Osh è la “samsa”, un impasto a forma triangolare con dentro di tutto. La proviamo ancora una volta con gusto pur conoscendo già di cosa si tratta.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– È stato riaperto il confine tra Uzbekistan e Kirghizistan. Se questo non fosse avvenuto alcuni mesi fa, adesso saremmo in un vicolo cieco dal quale sarebbe difficile uscire.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 67 – Festa a Biškek

21 agosto 2018, Bishkek (20 km, tot. 23.460)

La mattinata viene dedicata al turismo nella capitale kirghisa. Approfittando del deserto urbano motivato dalla ricorrenza islamica della “Festa del Sacrificio”, in centro non c’è quasi anima viva. Scattiamo foto nelle principali attrazioni cittadine che si concentrano essenzialmente nei pressi di Piazza Ala-Too. Al contrario di quello che succede in altre repubbliche post sovietiche, qui sopravvive una grande statua di Lenin. Riusciamo anche a procurarci una carta telefonica kirghisa, delle cartoline con francobolli alla posta centrale e una mappa della città e della nazione prodotta in occasione dei prossimi campionati mondiali di giochi nomadi che si svolgeranno in Kirghizistan. Una delle cose che più colpisce è la presenza di numerosi fiori ottimamente curati.

Passaggio dall’albergo e poi percorriamo i circa dieci chilometri che ci separano dalla stazione del metano Gazprom dove oggi saremo ospiti di un evento da loro organizzato. Lungo la strada ci sono numerosi negozi che si occupano di cambio di olio per auto. È impressionante che ognuna di queste strutture abbia tutte le marche possibili sia in taniche che in fusti da centinaia di litri. Bishkek sembrerebbe la capitale mondiale dell’olio per motore! Anche per questo scegliamo di fermarci al negozio Castrol 219, fornito anche di olio Toyota. Qui conosciamo i simpatici Rasul e Bakut che si occupano di cambiare olio e filtro, quest’ultimo non richiesto ma regalato da loro, alla Toyota Hilux. Dopo 34.000 chilometri è arrivato il momento di intervenire. Durante le operazioni di manutenzione, arriva un furgone che scarica una preziosa merce per questa giornata: la pecora, per la quale è prevista una fine non ottima, considerato la già ricordata tipologia di festività odierna. Altre persone arrivano dalle attività dei dintorni per assistere a quello che sembra essere un evento eccitante. Veniamo invitati a partecipare, ma per rispetto del loro momento di preghiera restiamo defilati dalla scena principale. Bruno, essendo un suino, non è ammesso all’evento, ma per Guido è stato riservato un posto d’onore in prima fila perché l’ospite è sacro anche in queste occasioni. La scena del lavaggio del coltello e del successivo sgozzamento della pecora è davvero cruenta, anche se siamo sollevati nel vedere che l’animale muore all’istante. Un signore anziano che percepisce la non serenità di Guido nell’assistere all’evento, con la propria saggezza ricorda che quell’animale è nato per essere ucciso e mangiato. Se non fosse stato oggi, sarebbe successo domani. Per fortuna che il cambio di olio si conclude prima del sezionamento della povera bestia e così Guido evita di doverne mangiare una parte.

Poco più avanti, senza montone, si consuma un veloce pasto per non arrivare in ritardo dagli amici di Gazprom. Finalmente avviene l’incontro di cui abbiamo discusso in numerose chat in giro per l’Eurasia. Per Gazprom Kirghizistan sono presenti il responsabile Ruslanbek e i curatori delle pubbliche relazioni Alibek e Karimbek. Di fronte a un cartellone con le scritte degli sponsor locali facciamo numerose foto, video e anche difficili interviste in russo! Naturalmente non manca il rifornimento gratuito offerto dalla Gazprom locale. Come in ogni bella occasione l’evento si conclude alla tavola di un ristorante nei pressi del confine kazako. I piatti nazionali kirghisi sono a base di cavallo e non ci sottraiamo alla cosa. Si parla del viaggio e delle strategie di Gazprom in Kirghizistan. Non manca l’idea di realizzare in futuro un altro viaggio dedicato solo ai cinque paesi dell’Asia Centrale. Ritorniamo nella capitale dove non avevamo previsto di dormire una seconda notte, ma vista la stanchezza accumulata nei due pranzi non si può fare a meno di riprendere un stanza di albergo per riposare nel modo migliore in vista della difficile giornata in alta montagna che domani ci porterà ad Osh. Causa tutto esaurito migriamo in un’altra struttura dello stesso quartiere. Nel centro cittadino, che oggi vive un grande clima di festa, avviene una passeggiata propedeutica alla leggerissima cena di nuovo al Concorde, il locale nella piazza principale dove avevamo cenato anche ieri. Citiamo questo ristorante perché il personale di sala ci ha accolto per due sere con una gentilezza e amicizia davvero sopra ad ogni aspettativa. Ci chiedono una foto prima del saluto definitivo di questa sera. Con il numero incredibile di pasti consumati quest’oggi abbiamo senza ombra di dubbio onorato tutte le tradizioni legate alla festa musulmana a cui abbiamo di fatto preso parte.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– In Kirghizistan non c’erano stazioni di metano. Oggi ne possiamo trovare cinque.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale e gli amici di Gazprom Kirghizistan

Giorno 66 – Arrivo in Kirghizistan

20 agosto 2018, Almaty-Bishkek (264 km – tot. 23.440)

Anche al mattino all’hotel Turkestan manca l’acqua calda. Per la seconda volta in poche ore sarà quella fredda a curare la nostra igiene. Poco importa visto che la giornata rimarrà quasi per intero attorno ai 38° di temperatura. Dopo la colazione facciamo una passeggiata diurna nei pressi dell’albergo. Uno sguardo al mercato agricolo all’interno del bazar verde per poi proseguire fino al Parco Panfilov. Qui c’è un imponente memoriale dedicato a ventotto soldati dell’Armata Rossa di provienienza kazaka e kirghisa che riuscirono a rallentare l’avanzata tedesca nei pressi di Mosca nel 1941. La loro storia è molto popolare in tutti i paesi dell’ex Urss. Sempre in questo parco sorge la bella Cattedrale dell’Ascensione che ha la particolarità di essere tutta in legno, chiodi compresi.

Lasciamo il centro cittadino per effettuare un pieno di metano in una delle stazioni che riforniscono gli autobus della città, che sono tutti a metano o elettrici. Sebbene in questa stazione non ci conoscesero, l’accoglienza è sempre di livello molto elevato e non ci sottraiamo alle ormai consuete foto di gruppo.

Rispetto a dieci anni fa notiamo che la città ha avuto un grande boom urbanistico che ne ha cambiato buona parte dei connotati, soprattutto le zone attorno al centro, che nel 1887 era stato devastato da un terremoto che aveva lasciato in piedi solo la già citata cattedrale in legno.

Giunge l’ora di lasciare la viva e piacevole Almaty percorrendo la trafficatissima tangenziale che ci porta all’inizio della grande strada che conduce nell’ovest del Paese e naturalmente anche a Bishkek, non lontano obiettivo di giornata. È molto in uso l’abitudine di chiedere passaggi lungo le principali strade e in quella che parte verso Bishkek c’è quasi una stazione per l’autostop, visto che ci sono almeno trecento persone intente a chiedere passaggi. Oltre questo ci colpiscono le angurie giganti presenti in centinaia di bancarelle lungo la stessa strada. Tra la frutta e i pedoni diventa davvero complesso uscire dalla città.

Veloce pranzo lungo il tragitto e i circa duecento chilometri che ci separano del confine volano in poco tempo grazie alla strada costruita negli ultimi anni. Korday è la città di confine e la propria economia è tutta dedicata a cambio di valuta, distributori di benzina, tassisti, piccoli market e tutto ciò che potete immaginare a livello di commercio, dai divani alle auto. Le due stazioni doganali sono ai due lati del piccolo fiume Cu e ci sorprende il fatto di non trovare file significative. In effetti le operazioni sul lato kazako sono piuttosto veloci, ma quelle kirghise ci sorprendono ancora di più visto che si limitano al timbro sul passaporto e null’altro. La gentilezza dei doganieri è impressionante e le uniche domande che ci vengono fatte sono relative alla Juventus e Cristiano Ronaldo a causa del nome di Torino che portiamo scritto sull’auto. Chiediamo notizie sull’assicurazione per l’auto e ci viene risposto che non è necessaria. Oltre il confine c’è un posto di blocco della polizia. Anche qui facciamo presente di non avere una assicurazione valida per il Kirghizistan e con un sorriso ci dicono che nessuno ha l’assicurazione in questo paese.

Percorrendo i circa venti chilometri che ci separano dalla capitale troviamo il distributore di metano Gazprom dove domani avremo un incontro con i nostri partners kirghisi.

Notiamo molti richiami all’Unione Euroasiatica, il soggetto economico e forse a breve anche doganale che unisce Kirghizistan, Kazakistan, Russia, Bielorussia e Armenia, una sorta di Unione Sovietica in miniatura. Prendiamo alloggio presso l’Astor Hotel, veramente difficile da trovare senza un navigatore satellitare. Arrivati nella strada dove pensavamo che fosse troviamo al suo posto una medressa. Dalla scuola islamica escono dei barbuti seguaci di Maometto che gentilmente ci aiutano a rintracciare la struttura, ubicata proprio sotto la torre della televisione, una panacea dal punto di vista delle emissioni elettromagnetiche. La Hilux suscita curiosità e non mancano le domande da parte degli altri clienti dell’hotel. Approfittando dei pochi minuti di luce rimasta tentiamo una sortita in centro dove facciamo in tempo a vedere alcune delle attrattive principali dove torneremo domani mattina. Dopo giorni di scarsi pasti ci concediamo una lussuosa cena con vista sulla piazza Ala-Too, l’animato cuore pulsante di Bishkek. L’architettura cittadina rispecchia molto lo stile sovietico con delle personalizzazioni kirghise che non rovibano l’effetto complessivo.
Il rientro in albergo avviene ad ora non tardiva per favorire il meritato riposo.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– La principale strada che collegava Almaty a Bishkek era in realtà una strada sovietica che ignorando quelli che sarebbero diventati i futuri confini tra stati sovrani collegava est e ovest del Kazakistan attraversando la capitale kirghisa. Oggi i kazaki hanno costruito una grande strada che evita da nord il problema. Non si trova più traccia nei nuovi atlanti o nei navigatori satellitari della vecchia strada.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 65 – Alle falde del Pamir

19 agosto 2018, Usharal-Almaty (558 km – tot. 23.176)

La luce mattutina entra troppo presto attraverso le tende nella nostra camera, e alle otto ci ritroviamo per una colazione collettiva con i due equipaggi del Mongol Rally che dormono nel nostro stesso albergo. Espletato l’aspetto nutritivo si passa alle foto commemorative dell’incontro che è servito a rendere meno monotono il sabato sera a Usharal. Loro partono verso nord, Bruno e Guido vanno a sud. Usharal nel mondo post sovietico è nota per un terribile episodio di cronaca avvenuto nel 2012. In una postazione militare posta tra Usharal e il confine cinese furono trovati morti 14 militari e un cacciatore. In un primo momento fu difficile comprendere le dinamiche del fatto, ma successivamente emerse una possibile verità, secondo cui un commilitone non in servizio avrebbe compiuto la strage per vendicare episodi di nonnismo e di discriminazione etnica, essendo l’unico russo nella guarnigione kazaka. La versione ufficiale dei fatti è stata cambiata più volte, e il militare è al momento in carcere.

La marcia mattutina non procede spedita a causa delle condizioni non eccellenti delle strade. L’asfalto c’è sempre, ma spesso è in condizioni tali da rischiare di distruggere cerchi e sospensioni. Poco oltre la città di Sarkand, ottimizzando il tempo si provvede a cibarsi e ad effettuare il necessario lavaggio alla sempre più sporca Toyota Hilux.

Superata la grande città di Taldiqorgan comincia una ottima quattro corsie che permette di tenere buone velocità. In lontananza si cominciano a vedere le innevate montagne del Pamir, dove alcune vette superano i cinquemila metri. Proprio dal Pamir scendono i fiumi e i torrenti, in questo periodo colmi di acqua, che portano vitalità alla terra che passa dall’aridità della steppa al verde delle coltivazioni agricole.

La macchina pulita non poteva che essere benedetta da pioggia e grandine poco prima di entrare ad Almaty. Va a vuoto un tentativo di rifornirsi di metano dato che il distributore che ci era stato segnalato in realtà vende gpl. Decidiamo di rinviare l’operazione al giorno successivo consapevoli che il metano si troverà visto l’enorme numero di bus a gas naturale che percorrono le strade cittadine. Nel frattempo con il pieno di Barnaul abbiamo raggiunto l’incredibile cifra di 1476 chilometri, migliorando di molto il precedente record. I fattori che hanno aiutato la prestazione sono, oltre l’ottimo metano russo, la bassa velocità tenuta nella parte kazaka del viaggio e un minor numero di chilogrammi tra bagaglio e passeggeri rispetto al viaggio di andata.

Nella Torino-Pechino 2008 approdammo, proprio in questa settimana, all’hotel Turkestan di Almaty. Tentiamo con successo di rinnovare la tradizione e per pochi tenghe prendiamo anche questa volta una stanza in questo centrale albergo davanti al popolare “mercato verde” dedicato ai prodotti ortofrutticoli. La città ha conservato una grande vivacità nonostante la perdita dello status di capitale e lo svuotamento di tutti i ministeri prontamente recuperati con altre funzioni. Ceniamo in una “stolovaja” di epoca sovietica e passeggiamo lungo la “Nazarbayeva”, una delle vie centrali della città che porta il nome del presidente in carica, quindi non defunto, del Kazakistan. Il primo e unico presidente di questa nazione è in carica dai tempi dell’Unione Sovietica e apparentemente, visti i risultati elettorali in cui pure gli avversari dichiarano di votarlo, sembra che goda di un vasto appoggio popolare.

Il rientro in albergo avviene in taxi e il tutto porta ad una curiosa gag. Anche il tassista è un fan del commissario Cattani e chiede chiarimenti sul fatto che la Sicilia sia un’isola oppure no. Spieghiamo che è un’isola separata dal resto dell’Italia da pochi chilometri. A questo punto il tassista chiede perché non sia mai stato fatto un ponte tra Sicilia ed Italia per poi correggersi e dire che in fondo, visto quello che è successo a Genova, è meglio così. La triste storia del ponte ligure contribuisce ulteriormente a rovinare l’immagine dell’Italia nel mondo, lo conferma anche un tassista qualsiasi kazako. Con questa amara considerazione possiamo andare a letto.

Cosa è cambiato nel mondo in dieci anni?

– Almaty, nonostante non sia più la capitale del Kazakistan, continua ad essere un polo di attrazione economica importantissimo. La città in dieci anni si è notevolmente estesa e la popolazione ha superato i due milioni di abitanti; considerando i sobborghi e i molti irregolari si arriva anche a tre milioni.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 64 – Nella steppa kazaka

18 agosto 2018, Semej-Usharal (575 km – tot. 22.618)

La sveglia e la conseguente colazione avvengono più tardi del solito per recuperare la stanchezza della giornata precedente. Curiosamente in sala da pranzo ci sono gli stessi tre individui che avevamo lasciato a tarda notte della sera precedente mentre bevevano più bottiglie di vodka. Il tavolo dove sono posizionati è lo stesso e l’entusiasmo con il quale uno di loro ci ricorda che la Juventus con Cristiano Ronaldo sarà imbattibile ci fa dedurre che non abbiano ancora dormito. Prima di lasciare Semej ci occupiamo di cambiare denaro e di procurarci una sim card kazaka. L’idea iniziale di lavare la macchina viene rinviata a possibile attività contemporanea al pranzo. Semej, in russo Semipalatynsk, è stata per quarant’anni una città chiusa agli stranieri. Non lontano sorgeva il poligono nucleare dove l’Unione Sovietica sperimentava il proprio arsenale. Si racconta che nei primi anni gli scoppi avvenivano in superficie contaminando la zona circostante e causando numerosi problemi alla salute di uomini e animali. L’attività del poligono è cessata nel 1989, ma la fama di questa città non è lontana da quella di Chernobyl.

Appena imbocchiamo la strada per Almaty, e per il sud della nazione, siamo fermati da una pattuglia della polizia per un normale controllo. Come già accaduto in passato riemerge il tormentone legato al Commissario Corrado Cattani e la fortunata serie televisiva “La Piovra”. I simpatici poliziotti citano molti dei personaggi della fiction e chiedono se Michele Placido sia ancora vivo. Interessante il fatto che abbiano collegato la tragedia del ponte di Genova alla corruzione negli appalti legata alla mafia. Naturalmente non facciamo nostre queste opinioni, ma visto che arrivano dalla polizia kazaka, può darsi che loro sappiano qualcosa in più…

La prima parte della strada di oggi non è pessima, un asfalto non sempre ottimo ma senza buche o avvallamenti. Attorno a noi la steppa kazaka che caratterizzerà la nostra giornata. Oltre ai pochi e malmessi villaggi, possiamo ammirare numerosi cimiteri islamici con tombe di famiglia che sembrano palazzi in stile barocco e vecchi sovkoz abbandonati. In una deviazione stradale attraversiamo un piccolo villaggio abitato ma in completa decadenza. All’inizio del paesino, un cartellone con il Presidente Nuzarbajev ci ricorda il “Piano 2050” che porterà prosperità all’intero Kazakistan. Per ora basterebbe un poco di asfalto per non uccidere di polvere gli abitanti di questo gruppo di case.

Dopo la pausa pranzo avvenuta in un luogo sperduto e senza nome, riprendiamo il viaggio con la strada in netto peggioramento. Arrivando dalle piste mongole tutto sommato l’asfalto deforme kazako ci sembra una cosa bella. Alle sei del pomeriggio dobbiamo decidere se fermarci o percorrere altri duecento chilometri prima della prossima città dove poter alloggiare. Andiamo avanti con la consapevolezza che finiremo di viaggiare dopo il tramonto. La luce nelle ultime ore del giorno, qui nella steppa, è molto bella. Purtroppo con la scomparsa del sole la strada peggiora notevolmente e dopo aver centrato alcune buche senza danni apparenti, siamo costretti a scendere ad una andatura attorno ai trenta orari. Tanto per cambiare gli ultimi chilometri diventano un calvario a cui fatichiamo ad abituarci. Finalmente arriviamo ad Usharal, pochi chilometri fuori dal nostro itinerario. Qui, scovato via internet, c’è il mediocre hotel Kabanbay che ci ospiterà per la notte. Nel parcheggio del ristorante a fianco della struttura ci sono una Marbella e una Fiat Uno con targa italiana con tre italiani e uno svizzero ticinese. Si tratta di due uomini, Fabio e Marco, e due donne, Giuditta e Paola, impegnati nel Mongol Rally, con cui abbiamo la possibilità di trascorrere la serata scambiando finalmente due chiacchiere nella lingua di Dante. Vengono da Almaty e quindi siamo reciprocamente utili per scambiarci informazioni sulle rispettive strade da fare. Più tardi del solito saliamo nelle nostra camere per dormire e ricaricare le pile per la giornata di domani.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Nel 2008 in ogni città si potevano osservare cartelli del “Piano 2030”, un ambizioso progetto del presidente kazako Nursultan Nazarbajev destinato a trasformare il Kazakistan in un luogo ricco e prosperoso entro quell’anno. Dieci anni dopo gli stessi cartelli parlano di “Piano 2050”!

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 63 – Discesa a valle

17 agosto 2018, Karakol-Semej (884 km – tot. 22.043)

La temperatura mattutina quando andiamo ad usare i servizi igenici nel campo dietro casa è attorno ai sei gradi. Per fortuna l’acqua è calda e assieme alla piacevole colazione ci permette di iniziare con la marcia giusta la giornata. Se vogliamo uscire dalla Russia entro sera è necessario trascorrere molte ore per strada. La P-256 “Chujskij Trakt” oggi ci offre un panorama meno spettacolare ma senz’altro vivace. Non mancano le strutture ricettive, i locali dove mangiare e le tante bancarelle di prodotti tipici dell’Altaj. Contrariamente ad altre zone della Russia troviamo numerosi cartelli in lingua inglese che indicano i luoghi di interesse turistico.

Arrivati a Gorno-Altajsk, capoluogo della Repubblica degli Altaj, possiamo finalmente fare un nuovo rifornimento di metano in una stazione Gazprom. Siamo accolti con simpatia da Aleksej, l’addetto al rifornimento, che chiede di fare foto assieme. Come è risaputo, Bruno abitualmente non può guidare, e in questa giornata Guido accusa la stanchezza accumulata finora. Il poco sonno e la tensione delle giornate precedenti emergono tutti assieme e solo un bel pranzo liberatorio, assieme alla notizia che la dogana di oggi non chiude di notte, riescono a far recuperare energie fisiche e morali. Ancora altri chilometri ed eccoci a Barnaul, capoluogo del Territorio degli Altaj, un soggetto federale diverso dalla Repubblica citata in precedenza. Ormai siamo in pianura e le temperature superano abbondantemente i trenta gradi, candidando la giornata odierna al record di escursione termica tra la mattina e il pomeriggio. Barnaul appare come una città molto vivace, attraversata dall’Ob come la vicina Novosibirsk. Qui facciamo un secondo rifornimento di metano presso un’altra stazione Gazprom. Naturalmente non ci sono problemi di autonomia, ma decidiamo di rabboccare il prezioso gas e di fare visita anche a questa stazione di rifornimento. Da Gorno-Altajsk avevano avvisato del nostro arrivo e quindi troviamo Anna, Igor e il responsabile Michail pronti ad accoglierci e a farci la consueta carrellata di fotografie.

Nel traffico cittadino perdiamo quasi un’ora che cerchiamo di recuparare aumentando il ritmo nei poco oltre trecento chilometri che ci separano dalla frontiera con il Kazakistan. Le montagne restano solo un ricordo dato che siamo circondati da grano e girasoli.
La dogana di Veselojarsk appare davvero malmessa e vecchia. Nella copertura del padiglione del controllo auto c’è una scritta che definisce questo luogo la “porta dell’Asia”. La fatiscenza della struttura non è giustificabile visto che Russia e Kazakistan sono separati solo dalla fine del 1991 e quindi le strutture non dovrebbero apparire in queste condizioni. In ogni caso l’organizzazione è buona e tutto sommato in meno di tre ore siamo fuori dalla Russia. Durante l’attesa, bloccati per circa mezz’ora tra le due dogane, ci è capitato di parlare con alcuni russi in coda che elargivano parole poco carine nei confronti di Eltsin e Gorbaciov, corresponsabili dello sfascio dell’Unione Sovietica e della nascita di questa e altre centinaia di dogane. Di fatto un tempo questa frontiera non esisteva e passare da una parte all’altra era come andare dalla Toscana all’Umbria.

Ormai è notte quando comincia il viaggio sulla strada kazaka, intervallato da una lunga sosta per fare l’assicurazione auto obbligatoria, con il funzionario che sbaglia i dati anagrafici di Guido e dell’auto almeno tre volte. Il primo albergo dovrebbe essere a circa ottanta chilometri dal posto di confine. La strada è decente, senza buche ma con difficoltà nella notte a stabilire i limiti della carreggiata, oltre i soliti attraversamenti di animali stavolta di piccola taglia. I pochi villaggi che attraversiamo non hanno alcuna forma di illuminazione pubblica. L’albergo segnalato è pessimo, decadente e sporco e a questo punto facciamo altri trenta chilometri alla ricerca di qualcosa di migliore a Semej, più conosciuta con il nome russo di Semipalatynsk. Qui dopo alcuni minuti di ricerca troviamo il semilussuoso “Golden Plaza”, che oltre la prevista fornitura di una stanza per dodici ore ci permette di cenare a mezzanotte inoltrata.

Cosa è cambiato in dieci anni?

– Incredibilmente il prezzo delle assicurazioni temporanee per le auto in Russia e in Kazakistan è diminuito. In parte questo è dovuto alla svalutazione delle due monete, ma complessivamente i prezzi sono davvero molto più bassi

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 62 – Un giorno in dogana

Olgij-Karakol (km. 437) – Tot. 21.159

Il vetusto e decadente hotel Duman offre una colazione modesta, ma che si rivelerà molto importante nel corso della giornata. Finiamo i tugrik mongoli con un pieno di gasolio a prezzo conveniente e partiamo verso il confine russo-mongolo. I primi settanta chilometri sono asfaltati e gli ultimi trenta sono pessimi. Dobbiamo essere prudenti vista l’assenza della ruota di scorta. Arriviamo al piccolissimo paese di Ulaan Baishint qualche minuto prima dell’apertura della dogana prevista per le 9.30. Siamo la quarta auto e c’è cauto ottimismo sulle tempistiche. In effetti il controllo doganale sul lato mongolo avviene in tempi rapidi nonostante sia ostacolato da una mandria di mucche che non vuole liberare il piazzale della postazione doganale. Da qui si percorrono altri nove chilometri di pista per arrivare ad un cancello chiuso dove un soldato russo è di guardia. Questo è il vero e proprio punto di confine e quando si accumulano due o tre veicoli viene aperto il cancello. Siamo in altura: anche se ignoriamo l’esatta altitudine, ci troviamo oltre i duemila metri. Nella parte russa ricomincia l’asfalto e dopo poco meno di venti chilometri arriviamo al punto di controllo russo, presso il villaggio di Tashanta, dove trascorreremo piacevolmente circa quattro ore. Le ispezioni passano veloci, il problema dove la fila si blocca è solamente burocratico. Gli addetti ai documenti relativi alle auto non russe lavorano molto lentamente. I russi, che non hanno bisogno di questo documento, passano senza problemi. Noi, gli altri europei e i mongoli siamo in attesa del nostro turno. Finalmente nel primo pomeriggio arriva una seconda addetta a questa procedura che decide deliberatamente di occuparsi dei quattro mezzi europei. Oltre a noi ci sono: il tedesco Jonas con la moglie e la bimba di dieci mesi con cui avevamo trascorso del tempo a Krasnojarsk un mese fa, Vlad il motociclista polacco entrato con noi in Mongolia dal confine di Khiakta e due coniugi francesi, Caroline e Christian, con un camion tipo quelli della Parigi-Dakar. Molti europei sono in fila anche sull’altro lato, per entrare in Mongolia, e sono quasi tutti equipaggi del Mongol Rally. Tra i tanti notiamo una panda italiana alla quale forniamo indicazioni sulle problematiche stradali in Mongolia. Uno dopo l’altro riusciamo a passare il confine e dopo circa trenta chilometri, presso il paesone di Kos Agac, ci fermiamo tutti senza esserci accordati nello stesso kafè per un frugale e necessario pasto. Seguono le foto commemorative dell’evento.

Per la Toyota Hilux incombe l’esigenza di riparare la gomma forata e tentare il lavaggio del veicolo ormai irriconoscibile. In dogana abbiamo dovuto almeno pulire dalla polvere le targhe e i fari. A tal proposito è molto interessante il fatto che il furgone di Jonas, nonostante abbia perso la targa, sia passato in dogana senza alcun problema. Sempre a Kos Agac troviamo uno “shinomontazh” (gommista) che si occupa di accomodare la ruota e di rimetterla al proprio posto. Il prezzo è davvero economico al punto che converrebbe venire qui a fare questo tipo di lavori!

Siamo sorpresi dalla bellezza della Repubblica degli Altaj, di cui in effetti avevamo sentito parlare molto bene da amici russi. La zona è popolata dall’etnia che dà il nome alla Repubblica, da russi e da kazaki. La strada segue per molti chilometri un altopiano prima di gettarsi nella valle di un fiume che chilometro dopo chilometro aumenta di portata, ingrossato dalla nevi ancora presenti nei monti attorno a noi. Capiamo che la lunga sosta in dogana non ci permetterà di raggiungere il capoluogo Gorno-Altajsk che doveva essere l’obiettivo di giornata per tentare di entrare in Kazakistan già domani. Anche il tramonto è davvero bello in questo scenario montano. L’oscurità rallenta ulteriormente la nostra marcia, visto che per ben due volte rischiamo di scontrarci con dei cavalli a passeggio lungo la strada. Proprio per questo decidiamo di sostare in una specie di camping nel microscopico villaggio di Karakol, circa dieci chilometri dopo la più grande Ongudaj. Ci viene assegnata una micro-casina senza bagno. I servizi igenici sono all’interno di un casottino ubicato nel campo dietro la casetta. Molto bello scoprire che all’interno del bagno c’è un vero water e non il solito buco sulla terra. Non c’è nulla di aperto per cenare e siamo costretti ad accontentarci di alcuni “pirozhki” di un vicino negozio lungo la P-256 “Chuyskiy Trakt”, la strada che ci condurrà domani a Gorno-Altajsk.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– La strada che attraversa la Repubblica dell’Altaj e arriva fino al confine di Tashanta è completamente asfaltata e in ottime condizioni. Dieci anni fa no.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 61 – Ferragosto senza traffico nelle piste mongole

15 agosto 2018, Altaj-Olgij (657 km) – Tot. 20.722

Dormita leggermente più lunga del solito approfittando del fatto che pochi chilometri dopo la partenza guadagneremo un’ora di fuso orario scendendo a +5 dall’Italia. La nostra sporchissima Hilux lascia l’albergo alle 7.30 della nuova ora con la consapevolezza di avere davanti a noi 440 chilometri di asfalto e poco più di 200 di piste. Solo una pausa caffè e qualche sosta per le foto ai bellissimi panorami intervallano la lunga tirata per guadagnare più tempo possibile nella parte buona. Da segnalare, purtroppo anche qui in Mongolia, il crollo di un ponte su un piccolo torrente. Il fatto deve essere accaduto da poco visto che gli operai dell’Anas locale stanno allestendo la segnaletica finalizzata a deviare il traffico su una vecchia pista. Allo stesso tempo troviamo due allagamenti della sede stradale a causa delle piogge degli ultimi giorni. Non è un problema per l’Hilux attraversare questi piccoli laghi appoggiando le ruote saldamente nell’asfalto. L’ottima strada permette un’andatura attorno ai cento orari. Da segnalare che buona parte del percorso odierno si sviluppa tra i duemila e i duemilaseicento metri di altezza. A causa delle quote elevate gli yak sostituiscono le mucche nei pascoli attorno alla strada. In alcuni tratti attorno a noi ci sono montagne che superano i 4.000 metri e che sono ricoperte di neve.

Attorno all’ora di pranzo siamo nella apparentemente piacevole città di Hovd da dove parte la pista per Olgij, obiettivo di giornata. Vedere il punto dove una moderna strada asfaltata si divide in una miriade di stradine sterrate è sempre emozionante. Rinunciamo alla sosta pranzo per avvantaggiarci nei circa duecento chilometri da percorrere e magari sostare più avanti per interrompere le fatiche delle pista. C’è un moderato ottimismo nel pensare di arrivare a destinazione in un orario comodo per poter riposare. Sbagliamo.

La pista è migliore di quella di ieri, meglio segnata nella parte iniziale e con fondo prevalentemente sabbioso che permette un’andatura di circa 60 km/h. Attorno al trentacinquesimo chilometro, in una zona non abitata e decisamente in altura, avvertiamo un forte sibilo arrivare dall’esterno. Purtroppo non è vento e neppure una radio troppo alta di un’altra auto di passaggio. La gomma posteriore sinistra si sta sgonfiando. Appena il tempo di percorrere altri trecento metri per cercare un fondo stradale non sabbioso e la ruota è completamente a terra. Non ci disperiamo dato l’orario non proibitivo. Semmai il problema è se e come proseguire senza la ruota di scorta una volta che avremo sostituito quella bucata. Recuperiamo tutta l’attrezzatura necessaria per lavorare, ma da subito emergono problemi sia nel posizionare il crick e sia nello svitare i bulloni della ruota. Chi ha viaggiato in Mongolia in auto conosce bene il fatto che da qualche parte c’è sempre qualcuno che salterà fuori per darti una mano, anche dove non c’è nessuno a perdita d’occhio. La tradizione è rispettata quando si ferma una motocicletta con a bordo due individui che saranno molto utili per il prosieguo dei lavori. Prendono in mano la situazione e recuperata una grossa pietra su cui appoggiare il crick organizzano anche il sistema per svitare i bulloni. I due mongoli tengono la chiave a croce e Guido, il più pesante, deve usare i propri novanta chili come leva. L’operazione riesce alla perfezione e nel giro di mezz’ora la gomma è cambiata. La ricompensa, assolutamente non richiesta, è meritata. La fatica per cambiare una gomma ad alta quota è grande e per riprendere una normale respirazione serviranno alcuni minuti.

Decidiamo di non tornare a Hovd per riparare la ruota ma proseguire con maggiore cautela, usando l’intero tempo a disposizione, fino al paese successivo, Tolbo, ubicato dopo circa novanta chilometri di distanza. Se tornassimo indietro diventerebbe impossibile raggiungere Olgij entro sera. La velocità rimane stabilmente sotto i 30 orari con la consapevolezza che una ulteriore foratura potrebbe creare problemi quasi insormontabili. I chilometri non sono molti, ma la complessità della strada è massima. Si sale fino a 2.600 metri sul livello del mare attraversando zone molto belle dove è possibile anche incontrare la locale fauna selvatica. Le poche volte che siamo rimasti soli ci è capitato di sbagliare strada, cosa che non aiuta nella gestione del tempo. Proprio a causa di ciò e in modo del tutto abusivo percorriamo alcuni piccoli tratti di una strada in costruzione ignorando i divieti che impedirebbero di farlo. Questa trasgressione si rende necessaria per recuperare prezioso tempo e per tranquillizzarci per qualche chilometro sulla salute delle nostre restanti gomme.

Scambiando informazioni con un equipaggio norvegese del Mongol Rally veniamo a sapere che venti chilometri dopo Tolbo ricomincia la parte asfaltata di percorso. A questo punto decidiamo di non fermarci a riparare la ruota e proseguiamo fino alla meta dove arriviamo attorno alle 20. Olgij è piena di moschee e donne velate, cosa che notiamo mentre cerchiamo l’albergo. Approfondendo la cosa capiamo che la maggioranza della popolazione di questa regione è di origine kazaka. Il Kazakhstan non confina con la Mongolia a causa di circa cinquanta chilometri di confine russo-cinese, ma nel corso dei secoli molti kazaki si stabilirono qui e nella regione degli Altaj. La forte religiosità presente è probabilmente un segno distintivo tra le due popolazioni di questa città.

Il ristorante dove proviamo a cenare – ricordiamo che il pranzo è stato del tutto saltato – non prevede la presenza di alcolici e anche per questo prendiamo la strada di un altro locale dove la radio trasmette musiche della vicina Russia, paese nel quale dovremmo riuscire a dormire domani, sempre che la temibile dogana di Tashanta non ci faccia cattive sorprese.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– A partire dal 2004, è possibile incontrare lungo le strade che portano ad Ulan Bator i partecipanti del Mongol Rally. L’evento è benefico e non competitivo, e in precedenza prevedeva di arrivare nella capitale mongola e regalare la propria auto che attraverso un’asta si sarebbe trasformata in denaro da devolvere in beneficenza a realtà che operano in Mongolia. Adesso l’evento finisce ad Ulan Ude, in Russia, e non più ad Ulan Bator come in passato. La maggior parte dei partecipanti onora comunque la Mongolia attraversandola da parte a parte.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 60 – Affondati nel fango

14 agosto 2018, Arvajheer-Altaj (595 km) – Tot. 20.065

Consapevoli della durissima giornata che ci aspetta carichiamo la sveglia all’alba. All’interno della missione questo non cambia molto le abitudini visto che anche i sacerdoti e le suore si svegliano presto. Un ottimo caffè all’italiana e via verso occidente con il sole nascente alle nostre spalle. I primi duecento chilometri sono percorsi in due ore e mezzo comprensive di soste per fotografie al paesaggio. Arrivati al paese di Bajanhogor finisce l’asfalto e comincia il previsto tratto di pista. Sostiamo in un negozio per acquistare cibarie ed acqua utile in caso di problemi in mezzo al nulla che ci aspetta. La signora del negozio parla russo e alla domanda sulle condizioni della strada che percorreremo ci dice che con un mezzo come il nostro ci metteremo solo dieci ore per raggiungere Altaj, il luogo dove proveremo ad arrivare. Le parole ascoltate non sono affatto confortanti e neppure il primo tratto di pista dove sbagliamo direzione un paio di volte, anche per merito della inesistente strada caricata nelle mappe di google. Torniamo a declassare il telefonino a ruolo di bussola ed utilizzare la vecchia ed infallibile mappa cartacea, oltre a cercare di rimanere sempre assieme a camion che conoscono la giusta direzione e quale tra le decine di piste che vanno verso ovest sia quella con il fondo in migliori condizioni. Ogni venti-trenta chilometri chiediamo conferma della direzione anche ai pastori che spesso controllano i gregge usando motociclette da cross. Proprio uno dei pastori ci indica un elettrodotto poco distante che raggiunge Altaj e che quindi può essere un buon punto di riferimento. La media è di circa 30-35 chilometri ogni ora con punte massime di velocità che toccano i 50 km/h e in un paio di rare occasioni abbiamo usato anche la quarta marcia. La strada è sempre al di sopra dei 2000 metri, con un’altezza massima raggiunta di circa 2500. Gli alberi sono completamente assenti e il fondo stradale è prevalentemente in terra battuta che in questi giorni di pioggia tende a diventare fango. Non ci sono guadi significativi grazie ai numerosi ponti di recente costruzione. Questo aspetto non deve essere trascurato visto che tutti i fiumi sono in piena e un guado senza ponti sarebbe risultato impossibile anche per un carro armato. Non manca, a tal proposito, una bella pioggia intensa di circa due ore utile a complicare la guida.

Elenchiamo le soste effettuate negli unici punti di ristoro presenti anche a beneficio di coloro che un domani potrebbero avere bisogno di queste informazioni. La seconda colazione è avvenuta nei pressi di Bumbugur in un suggestivo luogo raggiunto dopo aver percorso alcuni chilometri nel bacino di un fiume in secca. L’ottimo pranzo come sempre a base di pecora, invece, alla fine della cittadina di Buutsagaan dove l’oste mongolo ci ha consolato spiegandoci che dopo circa 80 chilometri sarebbe tornato l’asfalto. La sofferenza per la difficoltà della guida è alleviata dallo stupendo panorama che si gode dall’altopiano che attraversiamo.

L’ultima parte di strada prima del luogo indicato dall’oste è però costituito da una zona molto acquitrinosa. Attraversiamo due difficili tratti sfruttando le quattro ruote motrici del nostro veicolo e al terzo tratto lungo una cinquantina di metri forse pecchiamo di superficialità visto che sprofondiamo nel fango. Per l’esattezza la macchina si impantana del tutto a meno di un metro dalla fine del tratto fangoso. Le ruote girano a vuoto nonostante l’uso delle marce ridotte. Non perdiamo la calma visti i due analoghi episodi del 2008 quando ci insabbiammo con la vecchia Marea. Di solito entro pochi minuti passa sempre qualcuno che può tirarti fuori. Ricordiamo che queste strade sono percorse anche da auto senza trazione integrale ed è educazione che i fuoristrada aiutino coloro che rimangono bloccati nelle varie situazioni possibili. Una jeep si offre di tirarci fuori e il paradosso è che possiamo agganciare la fune metallica alla parte anteriore della Hilux senza sporcarci visto che l’asciutto si trova veramente a pochi centimetri dal parafango oltre che dallo sportello lato passeggeri. L’impegno è minimo e in pochi secondi siamo fuori dal pantano con la nostra auto ben segnata dal marrone che ci ha avvolto. Lasciamo una ricompensa ai soccorritori che decidono di donarci il loro cavo metallico da traino per fare in modo che possiamo essere attrezzati in caso di future nuove difficoltà.
Ironia della sorte, circa tre chilometri dopo inizia l’asfalto che ci accompagna negli ultimi cento chilometri fino ad Altaj. La signora della bottega di Bajanhogor aveva ragione visto che abbiamo percorso il tratto in questione in nove ore e mezza.
Questa parte di strada è in ottime condizioni, nuovissima, e nonostante il limite di ottanta si viaggia in sicurezza, cammelli stradali permettendo, anche a cento. Nei poco meno di trecento chilometri di pista percorsa oggi abbiamo notato vari cantieri di costruzione della strada che collegherà Altaj a Ulan Bator e più in generale il confine russo-mongolo occidentale con la capitale. Al momento i tratti mancanti sono molti e i lavori di costruzione non semplici. Allo stesso tempo i tratti più vecchi cominciano a necessitare di manutenzione. Con ogni probabilità se dovessimo tornare qui tra qualche anno il percorso che facciamo in quattro giorni sarà possibile farlo in un giorno e mezzo. La stessa cosa è successa con la strada che collega Ulan Bator con la Cina attraverso il valico di Zamin Uud. Nel 2008 usammo tre giorni per percorrere questo tratto, oggi basta poco più di mezza giornata.
Arrivati nella piccola e non bella Altaj facciamo l’unico rabbocco di gasolio in tutta la parte mongola di viaggio. Grazie all’ultimo rifornimento di metano russo che non abbiamo voluto usare prima di oggi, abbiamo ora la possibilità di attraversare tutto l’ovest della Mongolia senza bisogno di ulteriori rifornimenti grazie ad una autonomia diesel-metano di circa 1500 chilometri.
Ci ospita un grazioso ed economico hotel lungo la strada dove abbiamo la fortuna di cenare con due attempati inglesi che stanno percorrendo il Mongol Rally. Ci scambiamo informazioni sulle rispettive strade che andremo a percorrere nella giornata di domani e scopriamo con piacere che almeno 400 dei prossimi 650 chilometri saranno su fondo stradale asfaltato. Loro sono molto meno felici delle informazioni che gli comunichiamo su quello che li aspetta domani.
Siamo a 2200 metri di altezza e nella passeggiata serale c’è decisamente bisogno di una giacca, che forse non servirà ad Andrea e Claudia che partiti questa mattina da Ulan Bator, trascorreranno un paio di giorni ad Istanbul prima del rientro in Italia.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Le infrastrutture stradali mongole sono in grande sviluppo anche se ancora lontane dal coprire del tutte le principali direttrici. Nel frattempo la costruzione di ponti, anche senza l’annessa strada, permette di eliminare del tutto i guadi sui fiumi.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 59 – Tra cammelli, deserti e missionari

13 agosto 2018, Ulan Bator-Arvajheer (430 km) – Tot. 19.470

Oggi la Torino-Pechino lascia Ulan Bator per cominciare la lunga traversata di steppe e deserti (1600 km) che in circa quattro giorni vedranno la Toyota Hilux tornare in Russia. Dopo la colazione nella guesthouse che ci ospita troviamo la nostra auto chiusa da altri autoveicoli e quindi impossibilitata a lasciare il parcheggio. Per fortuna la padrona della guesthouse conosce la proprietaria di una delle macchine e riusciamo a liberarci. Ulan Bator dimostra di non volerci far andare via visto che il traffico del lunedì mattina ci costringe a percorrere in un’ora i sette chilometri necessari ad uscire dalla capitale.

Superata la zona dell’aeroporto il traffico cessa e inizia il consueto vuoto quasi assoluto che caratterizza la campagna mongola. Sappiamo che i primi chilometri di strada verso ovest saranno prevalentemente asfaltati, ad esclusione di qualche zona dove la cattiva manutenzione costringe ad andature molto lente. Su suggerimento di Padre Ernesto ci fermiamo circa cento chilometri dalla capitale, appena dopo il paesino di Lun, in una specie di autogrill in salsa mongola dove si può fare una colazione “all’italiana”. In effetti il caffè è buonissimo e il piccolo assortimento di pasticceria, composto da un solo tipo di salato e un altro solo tipo di dolce, risulta essere altrettanto gustoso. Il prezzo di tre colazioni è circa la metà di quello di un “camogli” delle nostre aree di servizio.

Il viaggio prosegue su strada buona e l’unico pericolo è costituito da pecore, capre, mucche e cavalli, sempre in branchi, che spesso attraversano il nostro percorso. A circa duecento chilometri dalla capitale fanno il loro esordio nella nostra collezione di animali stradali i cammelli!
Il tutto nei pressi di uno strano avamposto di deserto, definibile un’oasi al contrario visto che trattasi di una vasta isola di deserto circondata dal verde degli altopiani mongoli. Vicino c’è la cittadina di Rashaant, che su questa vasta zona sabbiosa ha costruito le proprie fortune legate al turismo. Qui, per la prima volta nell’intero viaggio, usiamo le quattro ruote motrici per divertirci a provare l’ebbrezza di salire e scendere da una duna di sabbia. Immortaliamo il tutto con foto e filmati. In questo strano luogo ci concediamo un pranzo all’interno di una gher a base di ravioloni ripieni di montone e altre prelibatezze sempre a base dell’animale più popolare in questa terra.

Negli ultimi duecento chilometri torna il verde alternato a zone rocciose. Alla guida c’è Andrea che dovrà fare i conti con qualche chilometro di pista e con un pessimo fondo stradale anche in presenza di asfalto. Il pedaggio di meno di mezzo euro ci annuncia che siamo ormai prossimi ad Arvajheer, il paese dove c’è la missione coordinata da Padre Ernesto assieme a Padre Giorgio e Padre Dido. Proprio quest’ultimo, di origine congolese, ci accoglie all’interno dell’interessante struttura. Come primo atto ci viene offerto un graditissimo caffè fatto con la moka. Si uniscono a noi anche le tre suore che vivono nella missione. In muratura c’è solo il centro dove vivono i sacerdoti e le suore e un’ulteriore parte dedicata agli ospiti. Con nostra sorpresa notiamo che la chiesa non è una struttura in mattoni o cemento, ma una gher mongola. All’interno c’è tutto quello che si può trovare in una chiesa, ma con la caratteristica di forma e struttura senza dubbio originali. Nelle altre gher posizionate all’interno dello spazio occupato dalla missione ci sono due oratori dove tutti i bambini della città – cattolici sono qualche decina su 20.000 abitanti – possono giocare, studiare o comunque trascorrere tempo. Lo spirito della missione non è quello di contabilizzare battesimi in una terra dove il cattolicesimo è arrivato da appena ventiquattro anni, ma cercare di fornire appoggio alle famiglie locali. Interessante anche il centro dedicato al sostegno e recupero delle persone con problemi di alcolismo e quello dove le donne della città possono lavorare borse e altri oggetti simili da poter vendere grazie ai contatti della missione. Non manca lo spazio dedicato alla coltivazione in serra di verdure quasi introvabili in Mongolia.

Alle 18.00 arriva l’orario di partenza di Andrea e Claudia che dovranno rientrare in autobus nella capitale per prendere l’aereo che domani li riporterà verso l’Europa. Il saluto ufficiale tra i membri della Torino-Pechino avviene nel piazzale della stazione degli autobus. Guido e Bruno decidono di cenare e pernottare alla missione per potersi risparmiare altre tre ore di viaggio che saranno spostate all’alba di domani dopo un meritato riposo.
Piacevole la conversazione durante la cena, bagnata con l’ultima bottiglia di vino 43° delle Tenute Nardi che ha percorso via terra tutti i chilometri del viaggio. Si parla dell’attività dei cattolici in Mongolia, ma anche delle vicende relative ai grandi vicini di questo paese, Russia e Cina. Fine serata con shopping e acquisto di prodotti fatti a mano dalle donne di Arvajheer nei laboratori del centro che questa sera ospita la Torino-Pechino.

Anche se può non sembrare osservando una carta geografica o viaggiando in queste strade, Arvajheer è a 1800 metri sul livello del mare mentre la capitale Ulan Bator è solo a 1300.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Pur non avendo visitato questo luogo, già nel 2008 avemmo notizie sull’attività della missione a Arvajeer. La struttura è più grande e molto potenziata e l’attività del centro di formazione professionale è senza dubbio il fiore all’occhiello di questa esperienza.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Andrea Gnaldi, Claudia Giorgio