Giorno 77 – Il fiume che divide Asia e Europa

31 agosto 2018, Beyneu-Uralsk (916 km. – tot. 27.578)

La giornata comincia con un vecchio classico del repertorio centroasiatico. Dopo la colazione lasciamo il piccolo albergo che ci ha ospitato. Neppure un chilometro di strada e siamo fermati dalla polizia locale che ci raggiunge da dietro con i lampeggianti accesi. Secondo il poliziotto abbiamo acceso i fari, obbligatori in Kazakistan, solo quando abbiamo incrociato l’auto della polizia. Questo è vero, ma è dovuto al fatto che abbiamo incrociato l’auto mentre partivamo dal piazzale del nostro albergo. Probabilmente la notizia della scomparsa delle richieste di mazzette nelle strade kazake non deve essere ancora arrivata a Beyneu. Seguendo il vecchio rituale Guido viene invitato a salire nell’auto della polizia dove avviene la proposta di togliere la multa in cambio di un “regalo”. Guido accetta con entusiasmo e prende dalla Hilux il volantino che racconta la storia della Torino-Pechino e fa perdere almeno un quarto d’ora al vorace poliziotto che nel frattempo si sta perdendo l’interessante passaggio di una carovana di auto storiche con targa europea. Alla fine il milite molla la presa e dopo oltre due mesi la Torino-Pechino mantiene la verginità in fatto di multe nelle strade centroasiatiche. Risolto con successo anche questo piccolo inghippo ci lanciamo nell’ottima strada che, costeggiando il Mar Caspio, conduce alla città petrolifera di Atyrau. La giornata di oggi è caratterizzata dal raggiungimento della minore altitudine dell’intero viaggio. Abbiamo toccato i meno venti metri sul livello del mare essendo il Caspio situato in una depressione. In un villaggio prima di Atyrau riusciamo a pranzare, mentre sempre nello stesso posto troviamo chiusa una stazione di metano che ci era stata segnalata in precedenza. Inutile la nostra attesa e il tentativo di chiedere informazioni alle stazioni di benzina circostanti. I gestori del ristorante dove abbiamo consumato il pranzo ci ricordano che oggi è la “Festa della Costituzione” e che probabilmente alcune attività sono chiuse per questo. Anche per cambiare i nostri soldi siamo costretti ad usufruire dei servigi di una anziana ed esperta signora che gestisce un piccolo negozio di generi alimentari, che pretende una commissione di circa tre dollari.
Ci consoliamo con l’ottima qualità del fondo stradale che ci fa sperare di riuscire a recuperare il ritardo accumulato ieri dopo la dogana uzbeka. Si percorrono circa cento chilometri ogni ora nonostante alcune brusche frenate per evitare di impattare contro cammelli e dromedari che affollano i bordi della strada. Il sud del Kazakistan è arido e l’unico colore differente dal marrone della sabbia desertica è il bianco del fondo dei laghi salati che in questa stagione sono asciutti. Da dopo Atyrau la strada risale il corso del fiume Ural, il confine geografico tra Asia ed Europa. L’Ural colora di verde il paesaggio creando una cerniera di vita che interrompe i deserti circostanti. Nel piccolo paese di Inderbor avviene lo storico passaggio del fiume. Oltrepassato il ponte siamo di nuovo in Europa dopo cinquantasette giorni di Asia. Pur non essendo collegato al passaggio da un continente all’altro, notiamo come avvenga un interessante cambio nella vegetazione che ci circonda. All’arido terreno della steppa desertica si sostituisce un verde sempre più intenso. Finisce la parte desertica del nostro viaggio per tornare ad una situazione di normalità, o perlomeno di similitudine con i panorami a cui siamo più abituati. Con le prime luci della sera entriamo finalmente ad Uralsk, in kazako Oral. Abbiamo percorso oltre novecento chilometri e siamo ad appena seicento da Kazan dove da domani la Torino-Pechino dovrebbe sostare. Uralsk non è la prima volta che diventa sede di tappa di un nostro viaggio. La cittadina è attraversata dal fiume Ural e molte cose sono legate alla particolarità di essere a cavallo tra i due continenti. Non mancano le insegne, anche bizzarre, legate al tema dell’Eurasia.
Dormiamo in un hotel centrale e ceniamo in una struttura all’aperto ubicata nell’isola pedonale nei pressi del teatro cittadino, il più vecchio mai costruito in Kazakistan. La città ha un aspetto russo e di kazako c’è solo qualche monumento a personaggi sconosciuti. Anche le facce tornano ad essere anche europee, dato che qui i russi sono circa il 40% della popolazione. La passeggiata serale per digerire i buoni shashlyki è utile anche per capire meglio come si vive in questa simpatica cittadina, che come Istanbul si trova a cavallo di due continenti.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Almeno oggi siamo ben felici di raccontare che le strade in questa parte di Kazakistan sono notevolmente migliorate negli ultimi dieci ani.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina

Giorno 76 – Sul fondale del lago d’Aral

30 agosto 2018, Moynaq (lago d’Aral) – Beyneu (km 513 – tot. 26.662)

Il primo mattino al di fuori della yurta che ci ospita è piuttosto freddo. Siamo costretti ad indossare felpe per recarci a fare colazione nel vecchio faro del porto di Moynaq. Le barche arenate sul fondale sotto di noi sono impressionanti. Qui mancano almeno dieci metri di acqua che corrispondono a decine di chilometri di distanza dalla nuova e sempre più precaria riva di ciò che resta del lago. Sono ancora visibili alcuni canali artificiali che per alcuni anni hanno permesso alle barche di raggiungere la riva del lago sempre più lontana. Qui si viveva di pesca e dell’inscatolamento dei prodotti del lago. Oggi si vive di agricoltura, soprattutto frutta, e il famigerato cotone responsabile di gran parte del prelevamento idrico degli affluenti del lago. Molti libri e inchieste sul tema raccontano di uno scenario catastrofico anche dal punto di vista economico, oltre a quello naturalistico ed a problemi per la salute delle persone. Le testimonianze che abbiamo raccolto a Monyaq non sembrano essere favorevoli ad un ritorno del lago se questo dovesse significare la perdita del lavoro che ha portato l’agricoltura. Interessante registrare una forte nostalgia dell’Unione Sovietica, vista come soggetto al di sopra delle conflittualità tra le cinque repubbliche centroasiatiche che non si mettono d’accordo su come provare a salvare quello che resta del lago. I nostri interlocutori sono dei muratori protagonisti di un episodio che ha caratterizzato la nostra mattinata. Dopo aver fatto le foto alle barche sul fondale del lago, abbiamo avuto la sciagurata idea di andarci anche in auto, consapevoli dei rischi di insabbiamento che anche una potente 4×4 come la nostra può correre. Come volevasi dimostrare siamo rimasti in mezzo alle due navi più grandi del memoriale dedicato alla scomparsa del lago. Per un attimo pensiamo ai turisti che tra qualche anno potrebbero trovare l’Hilux arrugginito parcheggiato per sempre vicino ai pescherecci dell’Aral. Senza eccessive preoccupazioni Guido si è incamminato fino ad un cantiere di una casa in costruzione notata in precedenza. Da qui è tornato all’auto con una squadra di muratori karacalpachi che armati di badili, sacchi da mettere sotto le ruote e molta forza fisica sono riusciti a disincagliare la Hilux. Abbiamo ringraziato offrendo un pranzo, regalando una bottiglia di vodka e gli ultimi cappelli BTS-Biogas rimasti a bordo della nostra auto. Con l’occasione abbiamo scambiato opinioni sul disastro ambientale in questo luogo. Come accennavamo siamo rimasti sorpresi dalle risposte date. Alla nostra affermazione che proprio le politiche sovietiche avessero portato al disastro, uno di loro ci ha corretto dicendo che le attuali politiche sono responsabili di tutto ciò e che non è un caso che il grosso del problema sia avvenuto dopo il 1991 quando le singole repubbliche post sovietiche hanno attuato politiche egoistiche e di propria convenienza relativamente alle acque dei fiumi immissari. “Fin quando c’era l’Urss”, sottolinea il capocantiere, “le esigenze del cotone, della pesca e degli altri prelievi idrici dai fiumi erano controllate da una autorità centrale che permetteva a tutte queste attività di non scomparire”. Non siamo in grado di fare un contraddittorio sul tema, ma in tutta la squadra è netto il giudizio sul fatto che si stava meglio prima. In tutto ciò è interessante anche il rivendicare la propria identità culturale karacalpaca che si sentiva più tutelata ai tempi dell’Unione Sovietica rispetto ad oggi. Non siamo qui per fare giornalismo d’inchiesta, semmai per raccontare la storia di un disastro ecologico con la speranza che in futuro non si ripeta nulla di simile. Resta interessante aver ascoltato le voci di alcuni abitanti del luogo, non giovani, che raccontano come il cotone sia stato più importante per l’economia locale rispetto al pesce del lago. L’acqua del lago, essendo salata, non era adatta ad irrigare e quindi era necessario usare quella del fiume, sottolinea un altro muratore del cantiere che ci ha salvato dal rimanere ore sul fondo del lago. Come spesso accade la verità sta nel mezzo visto che sono indiscutibili le responsabilità in epoca sovietica di coloro che scelsero di convertire la zona alla coltivazione del cotone, come del resto è innegabile che la disgregazione dell’Urss abbia portato ad enormi personalismi su questo tema da parte dei vari capi di stato delle repubbliche centroasiatiche. In ultimo aggiungiamoci che nella parte uzbeka sono stati trovati giacimenti di metano che con un eventuale ritorno dell’acqua sarebbero difficili da sfruttare.

Lasciata in modo definitivo Moynaq, riprendiamo la vecchia strada già percorsa nella giornata di ieri. Nella città di Kungirot, dove riprenderemo la strada verso nord, sostiamo per comprare provviste (tra cui giganteschi cocomeri e meloni) e fare quello che sarà l’ultimo rifornimento di metano in Uzbekistan. Una cinquantina di chilometri più avanti, ottimisti anche per il buon asfalto che stiamo percorrendo, decidiamo di fermarci per un ottimo pranzetto. Poi però la strada che percorriamo verso la frontiera kazaka peggiora drasticamente e presto riemerge quella che deve essere stata l’ultima asfaltatura di epoca sovietica. La media oraria scende a meno di quaranta chilometri ogni ora. Gli ultimi chilometri prima della dogana sono addirittura un alternarsi di terra battuta, sterrato e crateri di tutte le dimensioni. Puntiamo a salvaguardare il veicolo e arriviamo alla frontiera alle 17.30. In teoria saremmo la ventesima auto sul lato uzbeko, ma i doganieri ci fanno passare per primi poiché siamo turisti. Questa ulteriore attenzione si va ad aggiungere al non essere mai stati fermati in nessun posto di blocco della polizia nei giorni precedenti. È evidente che c’è un ordine ben chiaro di non disturbare in alcun modo i turisti presenti nel paese. Tutto questo facilita anche le operazioni doganali e in pochi minuti passiamo al lato kazako. Qui tutto avviene più lentamente, ma non per la burocrazia del paese post sovietico. Purtroppo bussiamo alla finestra dell’addetto all’importazione temporanea dell’auto proprio mentre inizia la pausa cena. Subito dopo comincia la pausa di coloro che ispezionano l’auto e tutto questo porta il tempo complessivo di attesa a oltre due ore. Sottoliniamo che neppure una valigia è stata aperta. Siamo nelle strade kazake poco dopo il tramonto e questo significa che dovremo per forza guidare anche di notte. I circa novanta chilometri che portano al paese di Beyneu, sulle sponde del Mar Caspio, sono peggio del previsto. La strada è in terra battuta, per fortuna con poche buche, ma la differenza la fanno i camion e la polvere che sollevano che rende impossibile vedere dove si va, soprattutto quando arriva il buio. Arriviamo a Beyneu a notte inoltrata e prendiamo il primo hotel con ristorante aperto che troviamo nei pressi della stazione ferroviaria. Proprio durante la cena partecipiamo involontariamente ad una festa con danze di gente del posto. Ci limitiamo a guardare, ma lo spettacolo è comunque molto interessante. I kazaki si confermano ad ogni occasione gente amante delle feste e non esitano mai nel lanciarsi in danze che coinvolgono anche i bambini. La stanchezza ben presto vince le nostre resistenze e siamo costretti ad abbandonare il piacevole osservatorio.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Per quanto riguarda il Lago d’Aral qualcosa è cambiato. La parte kazaka è tornata a vivere grazie ad opere di ingegneria idraulica, ovvero una semplice diga. Ancora poco tempo e la parte nord del lago tornerà a bagnare il porto di Aralsk, la città che prende il nome dal lago. Per quanto riguarda la parte sud, quella uzbeka, siamo lontanissimi da una soluzione. Un buon segnale è il fatto che il nuovo presidente uzbeko abbia organizzato un incontro con gli altri “stan” per discutere del problema. I fiumi che alimentavano il lago passano anche attraverso gli stati non rivieraschi e un qualsiasi tentativo di tornare agli antichi splendori deve per forza passare da un accordo tra tutti.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina

Giorno 75 – Giornata karakalpaca

29 agosto 2018, Khiva-Moynaq (Lago d’Aral) – km. 524, tot. 26.149

Secondo e ultimo risveglio a Khiva. Dopo la colazione siamo in alcuni dei punti più caratteristici ed esterni alle mura per fotografare la nostra auto che nel giorno di ieri ha meritatamente riposato. Un gruppo di donne locali sente il desiderio di essere fotografata assieme a noi e alla Toyota Hilux, come del resto negli ultimi giorni molti bambini hanno manifestato la propria cordialità nei nostri confronti salutandoci con un “hello”.

Lasciamo definitivamente la bella città storica per dirigerci, dopo circa un’ora di viaggo, a Beruniy dove ad attenderci c’è di nuovo Gajrat con il quale avevamo condiviso l’ottimo pranzo di lunedì. Ci riforniamo di metano nella sua stazione, aperta negli ultimi anni grazie alla collaborazione con Fornovo. Sempre con il suo aiuto riusciamo, in un altro luogo di Beruniy, a fare un rabbocco di rarissimo gasolio per poter raggiungere il confine kazako senza problemi. Anche in questa occasione la qualità del gasolio lascia a desiderare, come del resto la pompa stessa apparentemente molto vecchia e semiabbandonata. Pure stavolta dobbiamo sorvolare e accettare la situazione visto che ora abbiamo la consapevolezza che con questi due pieni potremo arrivare al confine con la Russia.

La successiva meta di giornata è Nukus, capitale della Repubblica di Karakalpakstan, soggetto federato all’interno dello stato uzbeko. Qui pranziamo spendendo la modica cifra di poco più di un euro a testa. Nukus è una città abbastanza anonima e costruita nel corso del XX secolo con i classici palazzoni sovietici che almeno qui sono ornati e decorati con caratteristiche tipiche della cultura locale. In linea teorica non ci dovrebbe essere nulla di particolare che la possa differenziare dalle altre città delle stesse dimensioni costruite nel Novecento. In pratica qualcosa di particolare c’è: nel centro della molto pulita e ordinata città sorge un grande museo che ospita delle collezioni molto originali. Nel corso di molti anni il pittore e archeologo sovietico Igor Savickij ha raccolto  un elevato numero di opere di pittori avanguardisti sovietici, spesso artisti non in perfetta sintonia con le indicazioni politiche dello stato sovietico. Accumulò queste opere a Nukus dove le autorità locali permisero l’esposizione all’interno di un museo allestito per questo e per ospitare anche raccolte di oggetti legati alla storia del popolo e della cultura karacalpachi. Il risultato è che oggi ci sono persone che vengono a Nukus, davvero fuori da ogni itinerario turistico, appositamente per vedere questo luogo. Vedere, ma senza fotografare visto che gli zelanti addetti al museo chiedono quasi venti euro per il permesso di scattare foto e contestualmente obbligano alla consegna del cellulare. Il sequestro del telefono non ci era accaduto neppure nell’escursione in Corea del Nord a fine luglio. Molto interessanti le scene di vita quotidiana che avvengono nella piazza vicino al museo, con sposi che utilizzano questo scenario per le proprie foto di nozze e numerosi bambini che chiedono di fare selfie assieme ai turisti. Noi ribaltiamo la cosa e chiediamo agli entusiasti bambini karacalpaki di fare un selfie con noi. Loro accettano con grande gioia. A lato della piazza sventolano due enormi bandiere, quella uzbeka e quella karacalpaca, molto simili tra loro ma con una banda orizzontale di colore arancione invece che bianca per il soggetto politico locale. Una volta indipendente l’Uzbekistan faticò a rapportarsi con il Karakalpakastan. Sembra che nei primi anni ‘90 si sviluppò un movimento locale indipendentista, subito stroncato dalle autorità centrali. Di fatto l’aspetto somatico delle persone è di nuovo cambiato rispetto a Khiva o Samarcanda, stavolta prevale la somiglianza con i vicini kazaki.

Lasciamo Nukus e la sua gentilissima popolazione a metà pomeriggio per dirigersi verso Monyaq, circa ottanta chilometri al di fuori del nostro percorso, ma meta di grande interesse per il nostro viaggio. Qui arrivava la sponda del Lago di Aral prima della catastrofe ecologica che ha visto quello che fu il quarto lago più grande del mondo arretrare di centinaia di chilometri fino quasi a sparire. Appena usciti da Nukus attraversiamo per l’ultima volta l’Amu Darya, uno dei due emissari dell’Aral. Il fiume è praticamente asciutto visto il prelievo irriguo destinato alle piantagioni di cotone e frutta che rendono viva l’economia di questo territorio. La strada che ci porta a Monyak non è affatto una delle migliori percorse negli ultimi giorni, ma con qualche attenzione ci permette di arrivare nella cittadina un tempo lacustre poco prima del tramonto. La città ha ancora come simbolo un pesce, almeno questo si capisce dal grande monumento ad inizio paese. Entrando siamo rallentati da una marea di gente che si sta recando nello stadio centrale per una festa cittadina della quale non abbiamo compreso il significato. Forse una specie di patrono locale, ci sembra di capire dalla conversazione con una persona del luogo.

Prima del calare della notte facciamo in tempo a scorgere dall’alto il cimitero di barche che si trova nel pressi del vecchio porto. Decidiamo di rinviare la visita al mattino di domani vista l’ora non idonea per avventurarsi nel greto asciutto del lago. Ceniamo e dormiamo in delle yurte in riva all’ex lago. Curiosa l’iniziativa di una famiglia del luogo che ha costruito queste tende proprio attorno all’ex faro del porto e che riesce a noleggiarle ai pochi turisti che vengono a Monyak. Grazie alla quasi assenza di pubblica illuminazione possiamo godere di un cielo stellato stupendo arricchito anche dal sorgere della luna direttamente da quello che resta del lago.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Nella parte nord del lago di Aral le autorità kazake sono riuscite, grazie alla costruzione di una diga, a riportare il livello della parte settentrionale del lago molto vicino ai livelli del passato. Anche in Uzbekistan il nuovo presidente dimostra interesse sull’argomento, nonostante qualsiasi tipo di progetto per invertire la tendenza sia ancora in alto mare.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina

Giorno 74 – Khiva, la città nel deserto

28 agosto 2018, Khiva (0 km – tot. 25.625)

La Torino-Pechino ha deciso di sostare un giorno a Khiva per potersi godere con calma la piacevole cittadina ubicata in un’oasi nella provincia uzbeka di Corasmia, al confine tra Uzbekistan e Turkmenistan. La decisione è arrivata dopo aver dato un rapido sguardo allo splendido centro cittadino nelle ultime ore di luce di ieri sera. A questo punto siamo consapevoli che accumuleremo ulteriore ritardo, ma non approfondire la conoscenza di questo luogo sarebbe stato un crimine. La leggenda dice che la città sia stata fondata da Sed, uno dei figli di Noè. La realtà dice che era un centro importante della Via della Seta e le prime tracce storiche si trovano in documenti datati circa mille anni fa. Le piazze di Khiva erano note nei secoli scorsi per i propri mercati di schiavi e per almeno due sconfitte patite dall’Impero Russo nel tentativo di sottomettere il Khanato.

La giornata inizia con la massima tranquillità visto che approfittiamo per riposare leggermente più del solito. Dopo la colazione ci avventuriamo nei vicoli di Khiva senza bisogno della nostra auto, lasciata a riposare nel parcheggio dell’albergo che ci ospita. Per accedere al centro della città è necessario acquistare un biglietto di circa dieci euro che permette la visita di tutti i musei, moschee, minareti, medresse presenti all’interno delle mura cittadine. Questo è un chiaro segnale di attenzione nei confronti dei turisti e del fatto che la città è molto più moderna e commerciale di quanto possa sembrare al primo sguardo. La cosa ai nostri occhi incredibile è che la maggior parte delle case e buona parte delle mura che cingono il centro storico sono fatte di terra e paglia. Questo dimostra l’inesistenza del fenomeno delle piogge in questa zona geografica, altrimenti sarebbe stato impossibile per queste strutture resistere per centinaia di anni. Alcuni palazzi, stavolta in mattoni e pietra, hanno la veneranda età di mille anni. Khiva con il suo Khanato per secoli è stata una fiera avversaria di Bukhara e Samarcanda e oggi di fatto è assieme alle due ex rivali una delle tre principali attrazioni turistiche dell’Uzbekistan. Rimane la differenza che il cuore storico di Khiva appare più vero e realmente abitato da persone normali rispetto ai centri molto modernizzati di Samarcanda e Bukhara. Anche l’aspetto delle persone è leggermente diverso, con tratti molto più turchi e meno asiatici. Tra le visite effettuate, forse una delle più curiose è la salita in cima ai cinquantasette metri del minareto del complesso Islam Khodya. Le guide cartacee scrivono quarantacinque metri, ma la custode della torre assicura che sbagliano. Le scale che portano in vetta sono elicoidali in legno, prive di luce o qualsiasi misura di sicurezza. Il panorama che regala questa esperienza è degno della fatica e tensione accumulate per scalare la struttura. Il veloce pranzo in uno dei tanti ristoranti è utile per organizzare le ulteriori visite del pomeriggio. La degustazione tris di plov, manty e golubtsy è un gustoso capolavoro della cucina ex sovietica. Moschee, giro delle mura, antichi palazzi, vecchi bazar, nuovi mercatini e perfino la vecchia e scalcinata ruota panoramica made in Urss dimostrano che in una giornata è impossibile visitare con il sufficiente tempo le sedici attrazioni comprese nel biglietto pagato in mattinata. Facciamo il possibile rimanendo dell’idea che la città abbia meritato questa sosta non prevista di un giorno in più. Tra i punti di forza di una fermata qui ci sono i prezzi delle bancarelle presenti nelle stradine della città che sono almeno la metà degli stessi souvenir acquistabili a Samarcanda o Bukhara. Bello poter osservare per il secondo giorno di fila lo spettacolo del tramonto che illumina di un colore speciale le cupole delle moschee con in lontananza i riflessi del deserto. Ieri la posizione privilegiata era una terrazza sopra le mura della città, oggi il balcone del nostro albergo. Scegliamo uno dei migliori ristoranti di Khiva per l’ultima cena in questo scenario. Anche in questo caso l’alta posizione domina la fortezza e il tozzo minareto incompleto chiamato Kalta Minor. Il nostro sfarzo ci costa ben cinque euro a testa, cifra davvero folle a queste latitudini. Il riposo in vista delle difficili giornate che ci aspettano è doveroso e proprio per questo non facciamo le ore piccole.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Khiva essendo meno popolare di Samarcanda e Bukhara vive in modo minore la presenza dei flussi turistici. Questo fa in modo che la città sia nelle stesse condizioni in cui erano Bukhara e Samarcanda dieci anni fa. Le strade sterrate, i pavimenti vecchi, alcuni edifici in abbandono oltre alle case del centro veramente abitate rendono Khiva più reale delle altre due mete turistiche. Speriamo che il cambiamento inesorabile che ci sarà non sia simile a quello avvenuto nelle altre mete turistiche uzbeke.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina.

Giorno 73 – Nel deserto del Kizilkum tra uzbeki, kazaki e karakalpachi

27 agosto 2018, Bukhara-Khiva (442 km. – tot. 25.625)

Di primo mattino, dopo la consueta abbondante colazione, lasciamo il piacevole hotel Edem gentilmente messo a disposizione da Fornovo Uzbekistan. Partiamo alla volta di Khiva assieme a Nozimjon, ormai nostra personale guardia del corpo. La distanza che ci separa dalla città storica obiettivo di giornata è di poco superiore ai quattrocento chilometri, ma con una parte di strada dal fondo non eccellente. Khiva era nel mirino anche della Torino-Pechino 2008, ma a causa del conflitto russo-georgiano dell’agosto di quell’anno fummo costretti a cambiare itinerario e rinunciare a questa bella città.

I primi cento chilometri di strada sono, come previsto, davvero pessimi, con i famosi avvallamenti dovuti al peso dei mezzi pesanti. A seguire comincia una superstrada in cemento, con quattro corsie, nella quale si superano in massima tranquillità i cento km/h. Entriamo nella Repubblica di Karakalpakstan, un soggetto autonomo all’interno dell’Uzbekistan dove vivono ben oltre un milione di persone suddivise in tre gruppi etnici equivalenti: uzbeki, kazaki e karakalpachi. Le lingue ufficiali sono l’uzbeko e il karacalpaco. Il territorio di questa zona è caratterizzato dalla presenza del deserto del Kizilkum che divideva l’emirato di Bukhara da quello di Khiva. Le uniche macchie di verde sono in lontananza lungo il corso del fiume Amu-Darya, che in questo tratto divide l’Uzbekistan dal Turmenistan. Avvistiamo il fiume e il confine tra i due stati più volte durante il trasferimento. In un punto qualsiasi del deserto decidiamo di inoltrarci tra le piccole dune per fare alcune fotografie. Sorprendentemente scopriamo un mondo nuovo, fatto di pecore e pastori. Le povere pecore hanno davvero poco da mangiare e si gettano tra i pochi cespugli dove sopravvive qualcosa di verde. Suscitiamo la curiosità dei pastori che probabilmente si chiederanno cosa siamo venuti a fare dall’Italia fino a questo luogo ameno.

Alle 14 siamo finalmente presso la cittadina di Beruniy dove ci aspetta Gajrat, titolare della locale stazione di metano. Naturalmente non ci occupiamo solo di fotografare il sito e di rifornire l’auto, ma come di consueto andiamo a pranzare assieme e non sarà uno spuntino leggero. Sul nostro tavolo, in un ristorante della zona compare anche il pesce dell’Amu-Darya oltre alle consuete verdure, ottima frutta e carne. Siamo in un’oasi, ulteriormente alimentata dalle acque del fiume che, come già detto, non ha più le forze per sfociare nel Lago di Aral. Gajrat ci presenta la prestigiosa vodka “Karatau”, pluripremiata tra le migliori esistenti in Russia e dintorni. Il capospedizione Guido, essendo impegnato nella guida, non può che assaggiare un piccolissimo bicchiere del prezioso liquido. Gajrat si adegua e ci regala una cassa da sei bottiglie da bere quando non guidiamo… Ringraziamo per la gentilezza e spieghiamo che torneremo alla stazione di Beruniy per rifornire anche quando lasceremo Khiva.

Ultimi quaranta chilometri e finalmente raggiungiamo la storica città dove prendiamo possesso di una stanza presso il centralissimo Hotel Islambek. A questo punto la missione di accompagnamento di Nozimjon si conclude e con un comodo passaggio d’auto, a metano, della durata di sedici ore ritornerà a Tashkent nella notte. Doniamo al nostro più accanito fan la maglia ufficiale della Torino-Pechino 2018 e lui gradisce molto il pensiero. La difficoltà a visitare la città di Khiva emerge anche quest’anno visto che, a causa di tutti gli impegni della giornata, cominciamo il tour turistico praticamente alle 19.00. Facciamo in tempo a percepire la bellezza di questo luogo anche grazie all’escursione in una delle torri più alte e panoramiche della città, da cui possiamo godere del tramonto. Durante la cena consumata in un piccolo locale all’aperto del centro cittadino emergono tutti i nostri dubbi sul restare o meno un giorno in più a Khiva per potere avere il tempo di gustarsela con calma. Ci sono aspetti positivi in questa scelta e altri negativi che ci potrebbero costringere a fare velocemente le visite successive. Ci prendiamo alcune ore per approfondire l’argomento e comprendere con esattezza quale potrebbe essere la scelta migliore.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– La morte del già Presidente Karimov, di cui il 2 settembre ricorre il secondo anniversario, ha portato al potere il suo ex primo ministro Shavkat Mirziyoyev, il quale ha molto alleggerito il controllo della polizia all’interno del paese. Uno dei cambiamenti più evidenti è la cessazione dei numerosi posti di blocco lungo le strade che opprimevano gli automobilisti.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina, Nozimjon Shermuhamedov

Giorno 72 – Lo splendore di Bukhara

26 agosto 2018, Bukhara (38 km. – tot. 25.183)

La giornata comincia con un interessante fuori programma. Come avevamo già accennato precedentemente in Uzbekistan stanno del tutto scomparendo i carburanti tradizionali, in particolar modo il gasolio. Sopravvive qualche luogo di rifornimento, ma se non si è in possesso di uno speciale permesso riservato ai veicoli dello Dtato o a quelli dell’esercito, comprare il diesel diventa impossibile. In questo periodo dell’anno, complice la raccolta del cotone, la disponibilità di questo carburante è ancora più limitata. I nostri angeli custodi di Fornovo fin da ieri, senza successo, hanno cercato la possibilità di assicurarci un rifornimento che ci permettesse di uscire senza problemi dall’Uzbekistan. Oggi si è aperta la possibilità di poter acquistare una cinquantina di litri di gasolio in una località a circa 20 chilometri da Bukhara, non lontano dal confine turkmeno. Guido, accompagnato da Pavel, si reca in questa stazione di servizio. Il luogo è abbastanza “retrò” e i dubbi sulla qualità di quello che metteremo nel serbatoio sono molti, ma non ci sono molte alternative e non possiamo fare gli schizzinosi. Qualunque sarà la qualità del gasolio non possiamo rinunciare. L’erogatore è addirittura con le lancette, di quelli che Guido nei suoi oltre quarant’anni di vita non ha mai visto. Completata l’operazione si rientra a Bukhara dove può finalmente iniziare la giornata quasi interamente turistica che avevamo programmato.

La città ha una storia molto lunga e complicata ed è legata indiscutibilmente al passaggio di personaggi importanti come Tamerlano o Gengis Khan. Pure Niccolò e Matteo Polo, padre e zio del più noto Marco, sostarono per diversi anni in questo luogo. Bukhara è una delle tappe più importanti della Via della Seta e i numerosi caravanserragli e mercati presenti ne sono ancora oggi una importante testimonianza. Tra i luoghi più affascinanti della città c’è la fortezza di Ark dove risiedeva fino al 1920 l’Emiro e il complesso religioso attorno all’imponente minareto Kalon, una torre che forse era uno degli edifici più alti al mondo nel tredicesimo secolo. Si racconta che quando Gengis Khan conquistò e distrusse Bukhara, volle risparmiare il grande minareto per la sua bellezza ed imponenza. Altri dicono che, sollevando la testa per ammirare il manufatto, al condottiero mongolo cadde il cappello e questo segnale lo convinse a rispettare questa torre e risparmiarla. Non visitabile internamente la scuola coranica che rimase attiva anche in epoca sovietica. Qui ha studiato Kadirov, l’attuale presidente ceceno. In questa zona della città ci dedichiamo al pranzo a base di samsa e verdure. L’Emiro perse il proprio potere con l’arrivo dei sovietici, che trasformarono questo territorio prima in una repubblica all’interno dell’Urss e poi in quello che oggi è l’Uzbekistan. Di fatto il territorio era sotto il protettorato dell’Impero Russo già da cinquanta anni. In ogni caso il Khanato di Buhkara e poi l’Emirato riuscirono a resistere per secoli sottomettendo buona parte degli stati confinanti. La storia di questo soggetto politico è fortemente legata alla pazzia dei confini delle attuali repubbliche post sovietiche centroasiatiche.

Pomeriggio dedicato alla visita dei mercati presenti in tutta la città dove con costanza, pazienza e spirito di intraprendenza si possono fare ottimi affari. Particolare è la piazzetta con al centro una grande vasca d’acqua. Per molte analogie ci viene in mente la piazza della cittadina toscana di Bagno Vignoni. Anche qui rispetto a dieci anni fa è apparsa una pavimentazione consona e la zona è stata chiusa al traffico veicolare. Forse nel complesso tutto è diventato molto turistico e siamo convinti che la polvere delle strade sollevata dalle vecchie Lada di dieci anni fa non rovinasse lo scenario. Dopo un riposo pomeridiano nel nostro bell’albergo ceniamo per l’ultima volta assieme a Pavel e Nozimjon. Con il primo avvengono anche i saluti ufficiali visto che non potrà accompagnarci nel viaggio del giorno successivo causa impegni di lavoro. Un’ultima passeggiata nel cuore di Bukhara e quindi torniamo in albergo in vista della giornata che domani ci porterà a Khiva, altra storica città ubicata lungo la Via della Seta.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Anche Bukhara, come Samarcanda, è un’altra città, molto abbellita e molto turistica rispetto alla dimensione più rurale del 2008. In particolare le strade sono molto migliorate e dotate di marcipiedi. Il turismo di massa ha fatto la sua comparsa e le maggiori attrazioni sono diventate a pagamento, anche se per cifre molto modeste.
– La mitica torre dell’acqua, la paurosa struttura in metallo da dove si godeva di un ottimo panorama sulla fortezza Ark, è al momento chiusa al pubblico. Una ristrutturazione in corso porterà alla nascita di un bar sulla terrazza che domina la sommità.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina, Nozimjon Shermuhamedov, Pavel e Anna.

Giorno 71 – In un mare di metano

Samarcanda-Bukhara (347 km. – tot. 25.145)

La delegazione Torino-Pechino e Fornovo Uzbekistan lascia Samarcanda dopo avere approfittato delle prime ore del mattino per fare le consuete foto di rito vicino al Registan e quelle con la cartellonistica d’ingresso alla città.
Il primo impegno del giorno è raggiungere la città di Karshi, a metà strada tra Samarcanda e Bukhara, dove siamo attesi per un pranzo a base di plov, il piatto tipico ed originario di questa zona, e per il rifornimento in una nuova stazione di metano appena aperta e dotata di compressori Fornovo. La strada è abbastanza buona e fa una certa impressione notare i cartelli che indicano Termez, la città di frontiera tra Uzbekistan e Afghanistan. Ancora un volta il transito lontano dalle città ci permette di poter provare a capire come si vive in campagna. Spesso lungo la strada possiamo ammirare le piantagioni di cotone di cui l’Uzbekistan è uno dei più importanti produttori mondiali. Questa coltivazione è indirettamente responsabile della diminuzione della portata dell’Amu-Darya, il fiume che alimentava la parte meridionale del quasi prosciugato Lago di Aral. L’animale più presente lungo la strada è il dromedario e più volte siamo costretti a rallentare improvvisamente per evitare di investire i branchi che brucano le erbe lungo il margine stradale. Il viaggio è un ottima occasione per parlare con l’amico Nozimjon, che ci racconta le dinamiche del suo lavoro e l’esplosione del fenomeno metano in Uzbekistan. La scoperta di una serie di giacimenti in tutto il Paese ha portato alla conversione quasi totale del parco automobilistico nazionale e all’apertura di cinquecento punti di rifornimento. Circolano molti autobus e camion alimentati completamente usando il metano. Nessun paese al mondo ha in così poco tempo cambiato la propria vocazione automobilistica. Superata Karshi arriviamo a Koson dove ci riforniremo dopo aver pranzato assieme agli amici di Fornovo Uzbekistan e ai gestori della stazione di metano presente in città. Si uniscono a noi Pavel e la moglie Anna, originari di Bukhara. Pavel è il responsabile tecnico degli impianti installati da Fornovo nel Paese. Procediamo al rifornimento della Toyota Hilux nella moderna stazione di metano aperta da meno di un anno dove abbiamo modo di vedere da vicino il potente compressore nuovo di zecca. Siamo accolti con simpatia da tutti coloro che lavorano presso questa struttura. Non mancano, come al solito, le foto commemorative dell’evento. Il viaggio prosegue con un curioso fuori programma a circa trenta chilometri da Bukhara, presso una riserva naturale voluta secoli fa dal locale emiro. Qui abbiamo modo di visitare un parte della struttura dove sono presenti animali tipici di questa regione. Tra le tante bestie facciamo amicizia con Sashka, un cucciolo di una specie di capra selvatica o forse di una specie a noi non nota di mini antilope uzbeka. Il piccolo ha tre mesi e si comporta come un cane, dato che segue passo passo gli umani e si fa accarezzare senza problemi.
Il paesaggio è completamente desertico fino all’arrivo vicino a Bukhara dove comincia il verde dell’oasi che circonda la ex capitale dell’omonimo khanato che per secoli ha dominato il territorio dell’attuale Uzbekistan. Alle porte della città c’è un’altra stazione di metano che vanta un piccolo record: nel 2013 fu il primo dei punti di rifornimento aperti da Fornovo in Uzbekistan. C’è molto traffico di auto che devono caricarsi di gas naturale, ma tutti i presenti ci lasciano il posto per rifornirsi dedicandoci parole di sostegno per il nostro viaggio. Come al solito rispondiamo a molte domande sul nostro impianto diesel-metano. Finalmente entriamo a Bukhara, che come Samarcanda appare notevolmente cambiata rispetto a dieci anni fa. Le case di epoca sovietica hanno lasciato il posto a molti nuovi palazzi con uno stile più in linea con l’architettura centroasiatica.
I nostri amici uzbeki ci hanno riservato tre camere singole in un dei migliori alberghi della città, ubicato a due passi dalla parte vecchia. L’ospitalità della locale filiale di Fornovo è davvero grande e siamo quasi imbarazzati nel vedere la qualità delle stanze dove siamo alloggiati. Riusciamo a convincere Pavel e Nozimjon a fare finalmente una cena leggera dopo i bagordi degli ultimi due giorni. Ottima frutta e una serie di buone insalate dominano la nostra tavola. Tutto questo è un buon inizio per la lunga e bellissima passeggiata nella parte vecchia di Bukhara. Impressionante l’immagine notturna del grande minareto Kalon con dietro una luna quasi piena e il pianeta Marte forte di tutto il suo caratteristico rossore. Il riposo nel comodo albergo sarà determinante per vivere con calma la rilassante giornata di domani.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– L’incremento delle stazioni di metano e gpl ha portato alla quasi scomparsa delle tradizionali stazioni di benzina e gasolio in alcune zone dell’Uzbekistan.
– A bordo strada è scomparsa una parte dei cartelli che ricordavano frasi del defunto presidente Karimov, prontamente sostituiti con frasi del nuovo presidente Shavkat Mirziyoyiev.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina, Nozimjon Shermuhamedov e gli altri amici di Fornovo Uzbekistan

Giorno 70 – Non è poi così lontana Samarcanda

24 agosto 2018, Panjakent-Samarcanda (67 km. – tot. 24.798)

La sana dormita tagika si conclude con un’ottima colazione offerta dalla struttura che ci ospita. A seguire perdiamo circa mezz’ora nella ricerca delle chiavi della macchina che in realtà erano disperse nel letto della camera. Superato questo momento di confusione ci incamminiamo verso la frontiera dopo aver consapevolmente finito i residui di valuta tagika acquistando qualche litro di gasolio. Circa quindici chilometri e siamo pronti per affrontare il confine tra Tagikistan e Uzbekistan. Il lato tagiko si rivela ancora una volta non complesso se non per lo smaltimento della piccola coda composta da cinque auto. Come potevamo aspettarci il lato uzbeko è molto più complicato. L’ispezione alla Hilux è lunga, con domande legate prevalentemente alla curiosità per l’impianto diesel-metano oltre che, per l’ennesima volta, sul commissario Corrado Cattani. Non è chiaro l’aspetto assicurativo dell’auto. Ci risultava di dover provvedere all’acquisto di un’assicurazione stradale, ma i doganieri ci dicono di no. Insistiamo e ci viene detto che in dogana non possiamo provvedere a sbrigare questa pratica. I tagiki di passaggio ottengono l’assicurazione senza problemi mentre a noi ciò non è permesso. Alla fine rinunciamo ad ulteriori domande e felicemente entriamo in Uzbekistan. I chilometri che ci separano da Samarcanda sono circa quaranta e li trascorriamo ascoltando ripetutamente la nota canzone di Roberto Vecchioni. Siamo in città attorno a mezzogiorno e dopo aver provveduto all’acquisto di una scheda telefonica uzbeka raggiungiamo il piccolo hotel Legend dove sono alloggiate da tre giorni Alessandra e Giulia, che si uniranno alla Torino-Pechino per la prossima settimana. In realtà le due ragazze toscane erano pronte ad unirsi al nostro viaggio già da quattro giorni, ma il ritardo accumulato in precedenza le ha costrette a visitare Tashkent e Samarcanda con la massima tranquillità. L’incontro tra i valtiberini dispersi nella città metà uzbeka e metà tagika avviene attorno alle 13 dell’ora locale. Subito usiamo il pranzo come briefing per stabilire il da farsi nei prossimi giorni. Poco dopo arrivano Sardorbek e Baktior, persone di fiducia della succursale uzbeka di Fornovo, uno dei principali partner del nostro viaggio. Con loro visitiamo alcune delle attrazioni turistiche di Samarcanda. Alterniamo russo ed inglese per comprendere completamente la storia di questa città che ha molto da raccontare. Notevoli i cambiamenti urbanistici e l’incremento degli aspetti turistici in soli dieci anni. Una delle poche novità di rilievo è il mausoleo di Islom Karimov, primo presidente dell’Uzbekistan indipendente venuto a mancare nel settembre del 2016. Sul suo conto la stampa occidentale non ha mai speso grandi elogi, pur riconoscendo la capacità di fermare qualsiasi deriva islamista della nazione da lui presieduta. Karimov era originario di Samarcanda e figlio di genitori uzbeki e tagiki, ovvero le due componenti etniche principali della città. Dopo un rapido passaggio nei principali monumenti cittadini ci rechiamo in un ristorante caratteristico, il Samarcanda, dove ci aspettano Tolib e Nozjmion, responsabili di Fornovo Uzbekistan, che ci hanno raggiunto apposta dalla capitale Tashkent. Nozjmion fin dall’inizio del viaggio risulta essere uno dei più attivi estimatori della Torino-Pechino 2018 grazie alla propria attività sui social network. Un banchetto di vaste proporzioni caratterizzerà la nostra cena. Tra tutto una lode particolare al vino di produzione locale e alla carne di agnello. Il lauto pasto è l’occasione per concordare la strategia per i prossimi giorni oltre che per scambiare commenti ed idee sullo sviluppo del metano in questo paese. Sono già cinquecento le stazioni di rifornimento dedicate al gas naturale e anche questo è un forte sviluppo avvenuto negli ultimi anni, visto che nel viaggio del 2008 il metano era praticamente assente dal panorama dei carburanti locali. Fornovo è naturalmente in prima linea nella costruzione di stazioni di rifornimento del metano, massicciamente presente nel sottosuolo del paese centroasiatico.
Alla fine del lauto pasto siamo riaccompagnati al nostro alberghetto. C’è il tempo per una passeggiata notturna sotto le mura del Registan, l’attrazione principale della città. Anche qui molto è cambiato negli ultimi dieci anni e tra tutto emerge una grande statua di Islom Karimov. Sperando che il cammino abbia aiutato la nostra complessa digestione proviamo a dormire, visto che già domani ci trasferiremo in un’altra città uzbeka.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Samarcanda è molto cambiata e non solo per il mausoleo e la statua dedicata al da poco defunto presidente Karimov. Tutti i complessi monumentali sono collegati da un nuovo viale dedicato all’ex presidente. In linea di massima la città ha avuto uno sviluppo turistico decisamente forte.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale, Alessandra Cenci, Giulia Messina

Giorno 69 – Gita tagika

23 agosto 2018, Osh-Panjakent (616 km – tot. 24.731)

Fin dall’inizio della Torino-Pechino il Tagikistan era uno degli obiettivi del viaggio, visto che nel 2008 non riuscimmo a visitarlo. Il ritardo di cinque giorni con il quale siamo arrivati ad Osh non risulta essere l’unico problema. Il valico di confine che volevamo attraversare per entrare in Tagikistan risulta chiuso a non tagiki o kirghisi. Quello spettacolare della strada del Pamir è invece al momento sconsigliato dopo i recenti attacchi terroristi ai danni di turisti stranieri. Rimane quello di Kyzyl-Bel, una remota località della Kirghisia occidentale, in teoria non raggiungibile a causa di una enclave uzbeka nella quale passa la strada di collegamento. Bruciare il nostro unico visto di ingresso uzbeko per questa enclave non vale la pena. Da ieri sera è emersa una novità. Sembra esserci a nord dell’enclave uzbeka di Sokh un nuovo percorso alternativo. A dire il vero le poco precise mappe di Google indicano tre sconfinamenti in Uzbekistan e Tagikistan su questo percorso. Yandex, il “Google russo”, indica invece che tutta la nuova strada è all’interno della Kirghisia. Un ingegnere russo ospite nel nostro stesso albergo ci conferma l’esistenza della strada. Decidiamo di provare questa nuova e rischiosa esperienza. Partiamo dopo la colazione e qualche foto commemorativa della nostra presenza ad Osh. La prima parte del nostro cammino è all’interno dei soliti paesini trasformati in enormi bazar. Questo significa che gran parte del viaggio avviene a passo d’uomo. Un’anomalia al pedale della frizione che tende a rimanere bloccato in posizione attiva ci costringe ad una sosta da un gentilissimo meccanico che non vuole neppure farsi pagare per il ripristino del funzionamento del pedale. A parte i paesini e un tratto di quindici chilometri terribile a causa dei lavori di miglioramento del fondo stradale, il resto del viaggio scorre sulla nuova e confortevole strada che ci era stata segnalata. In effetti il percorso lambisce più volte i confini di stato e proprio per questo, a volte, fa delle curve davvero anomale per evitare sconfinamenti. Nessun rischio di finire nel lato sbagliato visto che blocchi di cemento e filo spinato sono praticamente ovunque. Chi ha disegnato i confini delle repubbliche sovietiche doveva non avere in simpatia il Kirghizistan. È evidente che tutte le zone fertili delle vallate che tocchiamo sono sotto la bandiera uzbeka, mentre le parti aride sono tutte per Bishkek. A proposito di enclavi uzbeke, possiamo notare nella zona dove il confine è più confuso una miriade di pozzi di petrolio. Questa ricchezza sicuramente non aiuta ad accordarsi sulle parti contese della linea di demarcazione.

Nessuna indicazione per trovare la stazione di frontiera che stiamo cercando. Alla fine chiediamo alla polizia che ci indica la giusta direzione. Le strutture doganali appaiono squallide e semiabbandonate. Nessuna fila in dogana e il cancello in ferro si apre solo per noi. Lato kirghiso molto veloce con solo la richiesta di denaro per la tassa ecologica. Paghiamo i circa 1000 sum (più o meno 13 euro) con quindici euro, dei quali non avremo mai il resto. Ottimo l’umore dei doganieri tagiki. Tutti sorridenti e simpatici mentre controllano l’auto, il visto e naturalmente anche qui una tassa ecologica di ben 25 dollari. Stavolta il resto ci viene dato in moneta locale dopo che avevamo usato una banconota da 50 verdoni. La qualità delle strade tagike è sorprendente: sono nastri d’asfalto impeccabili se non per il fatto che non si trova neppure un cartello. La polizia però è ovunque e come quella kirghisa non ferma mai gli stranieri. Sembra una decisione imposta dall’alto quella di non disturbare i turisti, esattamente l’opposto di quello che avveniva in passato. Noi però ci fermiamo volontariamente ad ogni posto di blocco per avere la conferma della direzione nella quale stiamo andando. Ad ogni sosta ci viene elargita una stretta di mano da entrambi i membri della pattuglia. Proviamo a consumare i nostri “somoni” tagiki presso un ristorante lungo la strada che porta a Dushanbe. Come al solito il suino Bruno, non amato dagli islamici, rimane in auto a mangiare le ghiande kirghise mentre Guido siede da solo al proprio tavolo. Un camionista e due altri viaggiatori invitano Guido a sedersi vicino a loro per raccontare il viaggio che sta facendo. I tagiki sono molto ospitali e tutto il cibo del tavolo viene diviso tra tutti i presenti. Il conto sarà pagato da loro in cambio di un piccolo passaggio di un chilometro al paese vicino per uno dei commensali. La penuria di cartelli continua e trovare la dogana di Nov-Bekobod per raggiungere l’Uzbekistan diventa una vera impresa. Alla fine arriviamo alla stazione di frontiera, ma il cancello per noi non si apre. Trattasi di dogana pedonale e se vogliamo passare in auto c’è un punto di passaggio a sessanta chilometri a nord-est, cosa che allungherebbe la strada per Samarcanda. Tra l’altro la strada che dovremmo percorrere è sterrata. Ci pensiamo un attimo e poi torniamo sulla ottima strada per Dushambe che porta anche all’altra dogana verso l’Uzbekistan. In questo tratto è previsto un piccolo valico montano di quasi 3.400 metri. La saggezza impone di fermarsi in un albergo e aspettare il mattino, ma con nostro dispiacere scopriamo che in Tagikistan, oltre ai cartelli stradali, mancano del tutto le strutture ricettive lungo le strade. Le prossime città con alberghi sono Panjakent o la capitale Dushanbe. Entrambe sono a circa duecento chilometri da noi. Si parte, consapevoli che faremo una lunga parte di strada, per fortuna ottima, con il buio. La salita verso il valico è molto diversa dalle asperità affrontate in Kirghizistan. Anche qui la strada sale con pendenze disumane e con pochissime curve sempre a largo raggio, ma il panorama è molto meno alpino. Si arriva ai tremila metri con grande facilità e quasi senza accorgersene. Come ieri si supera il valico all’interno di una lunga e fumosa galleria. Peccato che l’oscurità impedisca di dedicarci alle fotografie del paesaggio, ma visto che la discesa è senza parapetti su burroni che conducono direttamente all’inferno, forse è meglio non vedere… Sulla sinistra i massi che si staccano dalla montagna, sulla destra il nulla. Procedere a passo lento e in fila dietro ad altre macchine diventa una necessità per avere punti di riferimento nell’oscurità. Tornati a valle si raggiunge con massima tranquillità la cittadina di frontiera di Panjakent, dove dormiamo all’hotel Umarion su consiglio del camionista con cui avevamo mangiato a pranzo. Piccola cena in un locale vicino dove, come quasi ovunque, non si servono alcolici. La passeggiata serale avviene tra tanti manifesti improbabili del Presidente tagiko Emomali Rahmon, in carica ininterrotamente dal 1994 e protagonista di quasi tutte le immagini ammirate nelle centinaia di chilometri di strada percorsa oggi.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– La Kirghisia ha costruito una bella rete stradale per saltare tutte le anomalie di confine che rendeva molto complesso il viaggio da un luogo all’altro.

– Il Tagikistan fa pagare continuamente piccoli pedaggi stradali, ma ha le strade di gran lunga migliori dell’ex Unione Sovietica.

– La polizia di queste due nazioni non ferma mai gli stranieri. Dieci anni fa era lo sport preferito.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale

Giorno 68 – Kirghisia “coast to coast”

22 agosto 2018, Bishkek-Osh (655 km. – tot. 24.115)

Partenza prima delle sette per fare in modo di arrivare ad Osh, dall’altra parte del Paese, prima che faccia buio. Nessun problema per uscire dal traffico cittadino visto che la maggior parte degli automobilisti sta entrando nella capitale mentre noi ne usciamo. Manca del tutto la segnaletica che ci possa aiutare a capire la direzione giusta e siamo costretti ad affidarci all’intuito e chiedere conferma ai passanti. Una volta fuori da Bishkek, dopo aver sbagliato almeno due volte strada, imbocchiamo quella giusta, come conferma il pedaggio di quasi cinque euro che ci viene chiesto per percorrere questa strada speciale. La particolarità di questo percorso è la presenza di due valichi montani di 3.300 metri e 3.200. La strada è aperta tutto l’anno ed è anche in buone condizioni! L’inizio del percorso è spettacolare, dato che si affrontano subito dei tratti in salita costante al 12%. Pochissimi i tornanti, piuttosto ci sono lunghe curve a largo raggio per favorire il traffico dei camion. Si risale prima la valle del fiume Kara-Balta e poi quella di un suo affluente, l’Abla. Ogni cambio di direzione corrisponde ad un nuovo panorama, ma la parte più spettacolare è il passaggio sopra le nuvole. Il finale è costituito da una stretta galleria di tre chilometri completamente satura di smog. Sull’altro versante scopriamo numerosi villaggi fatti delle tipiche tende, le yurte, i cui abitanti, oltre a controllare i pascoli, gestiscono attività di vendita e degustazione di prodotti tipici, ristorantini e addirittura alberghi nelle tende. Il sole illumina le vallate e regala colori molto vivaci. Se nella prima salita predominava il rosso della pietra, ora è il verde dei pascoli a fare da cornice.

Nella cima della seconda salita incontriamo Valentina, una ciclista italiana che ci chiama riconoscendo la targa familiare dell’Hilux. È di origine trentina e sta tornando in Italia direttamente dal Vietnam. Percorre in circa due anni l’intera Eurasia in bicicletta, quasi sempre in solitaria. Ci fermiamo alcuni minuti a parlare delle rispettive avventure, ma la sua è davvero più ecologica della nostra! Sia per Valentina che per noi comincia una lunga discesa di oltre cinquanta chilometri che ci riporta ad altezze moderate, con temperature che ritornano sopra i 30°. La seconda parte di strada è meno bella dal punto di vista naturalistico, ma interessante da quello energetico. Una serie di centrali idroelettriche sul fiume Naryn creano alcuni laghi artificiali di un azzurro molto forte a contrasto con il rosso e il marrone delle rocce attorno. La strada sale e scende attorno ai laghi e alle dighe fino al secondo punto di pedaggio, dove paghiamo altri quasi cinque euro. Impressionante vedere la differenza tra le zone verdissime nei pressi dell’acqua e tutto il resto decisamente arido.

Lasciato il fiume, la strada compie una serie di deviazioni innaturali a causa del confine con l’Uzbekistan, che costeggia l’asfalto. Siamo nella Valle di Fergana, uno dei puzzle geopolitici più complessi al mondo. Ai tempi dell’Unione Sovietica la strada entrava e usciva più volte dai due stati federati senza creare problemi a nessuno. Oggi per raggiungere Osh, a causa del confine, ci sono tre modifiche del percorso che allungano il cammino di circa centoventi chilometri. Assai curioso vedere come i fatti del 1991 abbiano diviso queste popolazioni lasciando in Kirghizistan una cospicua minoranza uzbeka e viceversa. A complicare il quadro ci sono anche numerose comunità tagike con lo stesso problema e separate dai connazionali da questo folle confine nel quale, come vedremo domani, ci sono anche numerose enclavi. Non è un caso che nella uzbeka Andjan e nella kirghisa Osh negli scorsi anni siano scoppiate rivolte che hanno portato a diversi sanguinosi scontri tra le due popolazioni. Il confine tra Kirghizistan e Uzbekistan è stato ufficialmente riaperto da pochi mesi e il nuovo presidente uzbeko sta cercando di accordarsi con i kirghisi per la definizione del pazzo confine.

L’ultima parte del viaggio ci vede attraversare una miriade di paesini pericolosissimi dove bambini, animali, guidatori indisciplinati mettono a dura prova la nostra pazienza. Procediamo con cautela anche a causa del fatto che qui non esiste l’assicurazione per l’auto e quindi ogni eventuale danno procurato o subito potrebbe generare grossi problemi. Poco prima di Osh superiamo il Kara-Darya, che pochi chilometri a valle, unendosi al già citato Naryn, crea il Syr-Darya, uno degli emissari del lago d’Aral. Il cospicuo prelievo d’acqua per le coltivazioni di cotone in Uzbekistan impedisce in molte annate al fiume di raggiungere ciò che resta del lago, contribuendo ad un disastro ambientale in atto da decenni.

Dopo tredici ore di viaggio, praticamente al tramonto, siamo finalmente ad Osh. Il traffico cittadino è quello tipico di una città araba con grande caos lungo le strade strapiene di negozi di ogni genere. Siamo alloggiati all’hotel Osh-Nuru, un residuo di epoca sovietica elegante e centrale. Infatti raggiungere a piedi la piazza principale con la relativa statua di Lenin è questione di pochi minuti. Questa sera ceniamo in un locale alla moda dove dopo le 22 comincia anche uno scatenato ballo tra i clienti. Il piatto tipico di Osh è la “samsa”, un impasto a forma triangolare con dentro di tutto. La proviamo ancora una volta con gusto pur conoscendo già di cosa si tratta.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– È stato riaperto il confine tra Uzbekistan e Kirghizistan. Se questo non fosse avvenuto alcuni mesi fa, adesso saremmo in un vicolo cieco dal quale sarebbe difficile uscire.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale