Giorno 45 – Vigilia cinese

30 luglio 2018, (Pyongyang)-Artyom-Kraskino (km. 209) – Tot. 14.829

La sveglia al ventesimo piano dell’Hotel Koryo mi permette di vedere il sorgere del sole in corrispondenza della Torre Juche. L’effetto ottico è notevole anche se penso non sia stato programmato, come molte delle cose turistiche e non che riguardano la capitale nord coreana. Assieme alle mie due guide e naturalmente all’autista raggiungiamo in meno di mezz’ora l’aeroporto di Pyongyang circa sessanta minuti prima della partenza del volo. Trovarsi in una città dove non esiste il traffico privato e dove non partono o arrivano chissà quanti aerei permette di velocizzare tutte quelle attività che in occidente sarebbero più complicate. In ogni caso la burocrazia è sempre in agguato e un non meglio precisato problema allerta un solerte poliziotto della dogana coreana. L’intervento delle mie guide e una telefonata a non so chi risolve il tutto. Mi congedo dai miei nuovi e unici amici nordcoreani e salgo di nuovo sul consueto Ilyushin 62 made in Kazan. Circa mezz’ora oltre l’orario previsto per la partenza, un improbabile annuncio della hostess ci comunica che il ritardo è dovuto al traffico aereo.

Non sono sicuro della veridicità dell’affermazione dato che ho notato tecnici aggirarsi attorno all’aereo con degli enormi manuali d’istruzioni. In ogni caso, con un’ora di ritardo lasciamo Pyongyang e il volo fila liscio fino all’aeroporto di Vladivostok, presso la già citata cittadina di Artyom. Superato il controllo doganale, stavolta accompagnato dall’affettuosità e relativa leccata del cane antidroga russo, mi dirigo al parcheggio dove finalmente recupero la Toyota Hilux qui abbandonata per poco più di 72 ore. Comincia il viaggio di giornata, questa volta solo in due visto che sono accompagnato dal Cinghiale Bruno. L’obiettivo è portarsi a ridosso del confine cinese per poter presentarsi in dogana nelle prime ore del mattina della giornata di domani. Dopo uno spuntino e un pieno di gasolio nella sempre presente stazione di servizio Rosneft, si risale a nord per una parte della strada percorsa nei giorni passati per raggiungere Vladivostok. Da qui si svolta decisamente verso sud per percorrere una strada che si avventura in un paesaggio che tutto ricorda meno che di essere in Russia. Oltre il verde da foresta fluviale, avvistiamo più volte cartelli che ci avvisano di essere in un parco chiamato “terra del leopardo”. Oltre la tigre dell’Ussuri in questa zona si aggira anche il leopardo! Siamo in altura rispetto a tutto ciò che ci circonda e grazie ad una ottima visibilità si scorge anche Vladivostok sull’altro lato del golfo. Paradossalmente, meno di una settimana fa avevamo una visibilità di 30 metri e oggi superiamo abbondantemente i 30 chilometri.

La destinazione della giornata è la piccola cittadina di Kraskino, a 25 chilometri dalla Cina e quasi altrettanto dalla Corea del Nord. Siamo quasi nel punto più a sud della Russia, battuti per un grado di latitudine dalla zona più meridionale del Caucaso. A Kraskino c’è molto poco se non un albergo di medie dimensioni studiato per i cinesi in transito da questo confine strategico, essendo quello più meridionale tra Russia e Cina. I prezzi dell’Orion Complex non sono carissimi, ma l’acqua calda c’è solo per poche ore al giorno. Da qui nella giornata di domani saremo al confine in circa 20 minuti. Entrando in Cina sposteremo le lancette indietro di due ore e quindi coltiviamo la speranza di avere comunque una buona parte della giornata per viaggiare verso Pechino. Nel frattempo i cinesi di passaggio completano il saccheggio della cucina, e noi rischiamo di rimanere a pancia vuota. Ci salva il vecchio e impresentabile cafè Korona, dove il menù prevede solo borsh, una polpetta di carne e del purè. Non ci sono alternative e accettiamo l’offerta. La passeggiata serale tra i ruderi e le poche case decenti di Kraskino riserva una interessante sorpresa. All’interno del parco cittadino ci sono dei monumenti a ricordo del tenente dell’Armata Rossa Michail Kraskin, a cui il villaggio deve il nome, che è morto con qui nel 1936 durante uno scontro di frontiera con i giapponesi che tentavano azioni offensive, la più violenta delle quali, nel 1938 a Chasan, si concluse con centinaia di caduti da entrambe le parti prima che le truppe sovietiche riuscissero a respingere i nipponici. Oltre ciò, nella strada principale è in manutenzione un bel monumento di epoca sovietica, oltre ad un grande murale dedicato a Lenin nel cinquantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre.

Osservando le cinque mucche che bevono da una grande pozzanghera vicino all’Hilux, ci corichiamo in attesa della difficile giornata di domani.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno il Cinghiale

Giorno 44 – Vacanze in (Nord) Corea

(27-28-)29 luglio 2018, Pyongyang – Monte Myohyang – Kaeson – DMZ – Sariwon

di Guido Guerrini

Condensare in una pagina di diario tutto quello che è stata la breve, ma intensa, avventura in Corea del Nord non è affatto semplice. Per il momento mi limito a scrivere un riassunto-cronaca di quello che ho visto e fatto, rimandando ad un momento successivo la pubblicazione di approfondimenti e relative fotogallery. Quello che ho scritto non pretende di essere esaustivo e non deve essere considerata una fonte di certezze su quello che è o non è questo Paese. Ribadisco che se questa escursione è stata possibile è grazie alla associazione svizzera Comecon che si occupa di organizzare viaggi nella Repubblica Democratica Popolare di Corea. Per massima chiarezza specifico fin da subito che in questo resoconto non intendo né lodare né criticare il sistema nordcoreano, ma voglio raccontare ciò che ho fatto e visto.

Ho usato l’aereo per raggiungere la capitale nordcoreana poiché il treno che parte da Vladivostok e in 24 ore raggiunge Pyongyang sembra non sia utilizzabile dai cittadini non russi o coreani. Questo fatto ha interrotto il viaggio via terra, ma non si poteva fare altrimenti per compiere questo ultimo balzo oltre uno dei confini più invalicabili del pianeta. L’aereo Ilyushin 62 che ha effettuato il viaggio da Vladivostok a Pyongyang è della compagnia nordcoreana Air Koryo, un modello che non producono più dal 1995 e che è stato assemblato nella città di Kazan, ironia della sorte il luogo dove nascerà mia figlia. A bordo dell’aereo, che dimostra tutta la sua vetustà ma anche un’ottima manutenzione, visto che viaggia da molti anni, c’è stato il primo approccio con la gente del posto. Sia le hostess che i passeggeri coreani presenti hanno dimostrato grande cordialità e amicizia. L’arrivo all’aeroporto di Pyongyang è stato decisamente insolito per chi è abituato alle frontiere di Shengen. Oltre i numerosi moduli già compilati in aereo c’è stata una ispezione molto attenta a tutto ciò che era presente nei bagagli, compreso un rapido controllo ai contenuti di cellulari, agende e libri. I nostri telefonini possono essere usati solo come macchine fotografiche visto che non c’è alcun roaming o connettività per i telefoni stranieri. Al contrario i dispositivi mobili coreani sono collegati ad un “internet” locale contenente informazioni, musica, sport, film. Il nostro sistema e quello coreano naturalmente non possono comunicare tra di loro. L’unico modo per comunicare con l’esterno sono le telefonate internazionali dalla stanza dell’albergo.

Superato l’ultimo controllo ed ammesso finalmente in Corea ho subito incontrato le mie guide coreane, anzi, i miei due angeli custodi, assieme all’autista dell’auto a mia disposizione. Le due guide si sono occupate di tutta l’organizzazione del mio soggiorno coreano. Comunichiamo in inglese e subito chiedo cosa posso e non posso fare onde evitare problemi al loro lavoro e soprattutto a me stesso. Contrariamente a quello che si può pensare vedendo la Corea dall’esterno, c’è massima libertà di fotografare tutto quello che si vuole, ad eccezione di installazioni militari ed edifici in costruzione. In ogni caso per prudenza, nelle prime ore del viaggio, chiedo sempre alle mie due guide. Mi viene confermato che non posso muovermi da solo al di fuori dell’albergo, ma come in seguito vedremo non tutto è programmato nel massimo dettaglio, visto che su mia richiesta, più volte, abbiamo modificato i piani.

Le prime ore di venerdì pomeriggio sono state dedicate alla visita del principali monumenti di Pyongyang. Questo primo assaggio della capitale è stato utile per apprezzare come la realtà sia molto differente da quello che ci comunicano i mezzi di informazione. Oltre alla pulizia e ordine, cosa che mi aspettavo di trovare, mi ha colpito molto la massiccia presenza di negozi sia grandi che piccolissimi. Anche questi ultimi sono rigorosamente a gestione statale. Gli scaffali sono pieni di articoli mai visti in vita mia, di produzione locale o importati da Cina, Singapore o Thailandia. Specifico che ho potuto osservare da vicino anche i negozi “non per turisti”. Non ho potuto comprare nulla in questi negozi ma ne ho potuti guardare in grande quantità. Considerando che non esistono auto private, il traffico è comunque presente grazie ai numerosi mezzi pubblici e veicoli da trasporto. Le arcinote vigilesse in divisa bianca ed eleganti gestiscono il tutto assieme ai semafori. Vengo portato ad osservare la metropolitana cittadina che si articola su due linee per un totale di 16 stazioni. In resoconti giornalistici italiani ho letto più volte che le guide si limitano a farti visitare due stazioni. Gli stessi resoconti insinuano che le altre stazioni potrebbero non esistere. Io ho visitato, o semplicemente attraversato, un totale di sei stazioni. Tutto si trova ad oltre 100 metri sotto terra e la mia guida mi conferma che si tratta della metropolitana più profonda del mondo. Altra nota di colore è il fatto che i treni e le carrozze vengono direttamente da Berlino Est. Qui ho modo di immergermi e fotografare la gente del posto che generalmente mi guarda con simpatia, in particolar modo i bambini. Oltre ai 170 metri della Torre Juche, prima torre in granito del mondo e dalla quale si gode di un ottimo panorama su tutta la capitale, ho modo di visitare la popolare Piazza Kim Il Sung sia prima che durante lo spettacolo delle grandi danze di massa che onorano il “Giorno della Vittoria”. Il 27 luglio del 1953 fu firmato l’armistizio tuttora in vigore della Guerra di Corea (1950-1953) che per i Nordcoreani rappresenta una vittoria militare. Nei giorni successivi avrò modo di ascoltare alcuni punti di vista sulla storia di questa cruenta e poco conosciuta guerra. Non essendo testimone diretto dei fatti mi limito a constatare che quello che si può leggere in un libro di scuola europeo differisce molto dal punto di vista dei nordcoreani. Non sono io che devo decidere chi ha ragione, ma trovo comunque interessante osservare, nella piazza che in Italia conosciamo per le imponenti sfilate di armamenti, almeno duemila coppie di danzatori in costume tradizionale che, perfettamente coordinati, ballano canzoni della tradizione coreana. Alcuni turisti occidentali vengono invitati a danzare assieme a uomini e donne in costume. Io non ho il coraggio di gettarmi nella mischia, ma sostengo a gran voce i pochi europei presenti e che accettano l’invito. La lunga giornata si conclude con una cena solitaria al ristorante del terzo piano dell’Hotel Koryo e poi nella mia camera al ventesimo piano della stessa struttura, una doppia torre gemella alta 143 metri che di piani ne ha addirittura quarantatré. Ho la possibilità di vedere anche canali in inglese, arabo e russo, ma prediligo il canale ufficiale coreano che trasmetterà per tutta la serata, con la solita enfasi conosciuta anche in occidente, gli eventi che hanno caratterizzato il Giorno della Vittoria.

Il sabato comincia da dove era finito il venerdì, con una bella colazione al ristorante del terzo piano. Gironzolando per l’albergo noto come i gruppi di cinesi, circa il 95% dei turisti presenti a Pyongyang, mangino al secondo piano e in qualche altro piano devono per forza mangiare i coreani. Propongo alle mie guide e al mio autista di mangiare assieme qualche volta. Inizialmente mi viene detto che non sarà possibile, poi riusciranno ad accontentarmi almeno per le cene. Il secondo giorno prevede una gita fuori porta di circa 150 km a nord della capitale, molto utile per osservare cosa c’è al di fuori del perimetro urbano. La destinazione del viaggio è l’affascinante Monte Myohyang dove si trova il Museo dell’Amicizia, un sito dove sono esposti tutti i regali ricevuti negli anni dai vari leader coreani. Purtroppo non è possibile fotografare i numerosi doni che ho potuto osservare. Tra i tanti ci sono una testa di orso donata da Ceausescu, tre vere automobili sovietiche donate da Stalin, Malenkov e Bulganin, numerosi doni dall’Italia, quasi tutti a firma di Giancarlo Elia Valori, interessante personaggio figlio di una famiglia di Sansepolcro, cittadino onorario della stessa città, e molto amico dei passati leader coreani. In tre stanze speciali è possibile incontrare tre riproduzioni, forse cere, a grandezza naturale del Padre della Patria Kim Il Sung, del successivo leader Kim Jong Il e di Kim Jong Suk, quest’ultima considerata la madre della Patria. Kim Jong Suk, poco nota in Italia, è stata la seconda moglie di Kim Il Sung e madre di Kim Jong Il, ma soprattutto una eroina della guerra di resistenza all’occupazione giapponese tra il 1925 e il 1945. Di solito i coreani non fanno riferimento alla discendenza diretta dei loro leader nazionali, ma in questo caso indirettamente le mie guide lo hanno fatto descrivendo Kim Jong Suk come moglie di Kim Il Sung e madre di Kim Jong Il. A proposito di discendenze, è del tutto assente dalla iconografia in giro per il paese l’attuale leader, Kim Jong Un. Coloro che vogliono fare attenzione al culto della personalità dei leader coreani devono tenere presente che i due “capi” precedenti sono onnipresenti ovunque, ma non quello in carica. Non mi soffermo sugli aspetti paesaggistici, comunque molto belli, del luogo dove sorge il complesso. A pochi chilometri da lì ci fermiamo per un ottimo pranzo in un resort molto elegante. Segnalo che per ben 4 euro ho potuto bere un perfetto caffè italiano preparato da una addetta esperta e capace su una vera macchina da bar italiana. Il viaggio di ritorno mi permette di osservare ancora meglio la situazione nelle campagne, comprensiva di una sosta in una curiosa area di servizio dove è possibile comprare o solo assaggiare i frutti di questa terra. La regione è prevalentemente montagnosa, ma non c’è un metro quadrato di terra pianeggiante o di collina che non sia coltivato. Prevalgono il riso in pianura e il grano in collina. Ogni fiume ha delle piccole dighe per creare laghi destinati all’irrigazione, mentre in tutti i laghi più grandi c’è sempre una piccola centrale idroelettrica. Le carestie degli anni ‘90 hanno portato ad un grande investimento sull’agricoltura e sul controllo idraulico del territorio, sottolineano le mie guide. Sicuramente questo è vero, ed è possibile osservare come ogni appezzamento di terra faccia riferimento a villaggi limitrofi dove la qualità della vita non è sicuramente paragonabile a quella di Pyongyang. Mi hanno colpito molto anche alcuni squilibri tra le varie realtà agricole. Alcune sono dotate di trattori e altre tecnologie utili a migliorare il lavoro dell’uomo, in altre realtà ho visto all’azione anche buoi e aratri. Anche in questo caso non mancano delle risposte puntuali da parte dei miei accompagnatori che sottolineano le varie difficoltà legate ad embargo e sanzioni e al fatto che negli ultimi anni il Paese ha dovuto sostenere uno sforzo per la costruzione degli indispensabili armamenti. Adesso che si profila un avvenire di pace e tranquillità, forse, maggiori risorse potranno essere dedicate al miglioramento di altri aspetti come l’agricoltura.

A Pyongyang mi aspetta il circo permanente, organizzato in una grande struttura della capitale. Non ero molto convinto di quello che mi veniva proposto, ma le due ore di spettacolo rigorosamente senza l’uso di animali mi permette di ricredermi completamente. Finisco per applaudire assieme ai bambini del Partito Comunista Russo seduti al mio fianco. Finalmente riesco a cenare assieme alle mie guide e al mio autista, evento che permette di instaurare un ottimo clima di cordialità che sarà molto utile nel prosieguo di questa esperienza. Durante la cena mi viene chiesto di scrivere il testo di “O Sole Mio”, l’unica canzone italiana conosciuta dai miei compagni di viaggio, che come tutti i coreani prediligono musica classica o tradizionale. Non a caso la colazione della domenica è accompagnata da questo tipo di musica. In base a quello che mi viene raccontato in Corea alla domenica non si lavora, mentre gli altri sei giorni ci sono circa otto ore di impegno lavorativo. Per i miei accompagnatori questa domenica sarà lavorativa, ma vengo rassicurato che potranno recuperare il giorno nelle prossime settimane. Durante il viaggio che ci porta verso sud alla DMZ, la zona demilitarizzata dove tre mesi fa i presidenti delle due coree si sono incontrati, con i miei “compagni” ci facciamo numerose domande per capire alcuni aspetti dei rispettivi sistemi economici. Quando affermo che in Italia si paga per avere assistenza medica e che le medicine in molti casi non sono gratis, i miei interlocutori rimangono sbalorditi. Ancora di più quando scoprono il costo di un anno di università o che la casa dobbiamo pagarcela dal primo all’ultimo euro. Per persone nate e cresciute in una società dove il lavoro e la casa sono dati dallo Stato, comprendere le dinamiche del sistema capitalista non è semplice. Non entro nei dettagli del nostro scambio di opinioni, ma è evidente che quello che qui è considerata una conquista sociale assieme alla serenità di una vita “sicura” non coincide molto con la nostra battaglia quotidiana per un posto al sole tranquillo. Loro considerano la meritocrazia in base ai risultati scolastici e allo studio. Per fare un esempio chiaro mi viene detto che solo i migliori studenti possono proseguire gli studi fino all’Università, mentre quelli meno bravi appena finita la scuola dell’obbligo vanno a fare un cospicuo numero di anni nell’esercito, per poi essere assegnati ad un lavoro.

Arriviamo finalmente a Panmunjon, nei pressi della Zona Demilitarizzata, una striscia di quattro chilometri con al proprio centro il confine tra le due coree, anzi la linea dell’armistizio del 1953. Percorriamo, con diversi posti di controllo dove scendiamo e risaliamo dall’auto, i due chilometri sul lato nordcoreano. Avvicinandosi al confine visitiamo alcuni luoghi simbolo di questa area. Sono conservate e trasformate a museo le sale che hanno ospitato gli incontri che portarono all’armistizio del 27 luglio del 1953. Ancora oggi ci sono i protocolli ufficiali firmati e le bandiere originali delle due delegazioni. A corredare il tutto qualche decina di fotografie delle varie visite in questo luogo di Kim Il Sung e Kim Jong Il. Mancano all’appello le recenti foto dei due incontri avvenuti negli scorsi mesi tra Kim Jong Un e l’omologo sud coreano Moon Jae In. Siamo finalmente a pochi metri dal confine e la struttura che ha ospitato, lo scorso maggio, il secondo vertice tra Kim e Moon è già alle nostre spalle. Una grande pietra bianca riporta le parole scritte e firmate da Kim Il Sung il 7 luglio 1994, poche ore prima della sua scomparsa. L’ultima firma del leader coreano corrisponde a parole destinate alla riunificazione della Corea, così mi spiega la mia guida. Aggirata la grande lapide siamo finalmente a una quindicina di metri dalle baracche azzurre che dividono la Corea e due sistemi economici. Il momento del transito vicino alle baracche corrisponde alla massima allerta dei soldati nordcoreani che si dispongono in una posizione pronta ad eventuali placcaggi se qualche folle turista dovesse tentare di andare oltre confine. In una situazione simile, nel 1984, morirono alcuni soldati di entrambe le parti quando un turista sovietico ebbe la sciagurata idea di attraversare il confine. Non possiamo entrare nelle strutture attraversate dal confine. Per l’esattezza all’interno della baracca centrale c’è un tavolo, usato per i colloqui, attraversato da un cavo che alimenta i microfoni posizionato in modo da evidenziare il confine. Veniamo fatti salire sul balcone che domina lo scenario e ci viene indicato il punto preciso dove il 27 aprile avvenne la stretta di mano tra Kim e Moon. La visione di questo luogo è emozionante. Si respira storia e allo stesso tempo tragedie legate alle dinamiche della storia coreana, spesso condizionata dalla politica di potenze esterne alle dinamiche dei due paesi. Una Corea denuclerizzata, libera da potenze straniere e unita sembra essere l’interesse di entrambi i governi che hanno promesso di provare a firmare un trattato di pace entro la fine del 2018. Ho l’onore di poter fare, su sua richiesta, una foto con uno dei responsabili militari della base. Mi evidenzia il fatto che di solito gli italiani vengono ad osservare questo luogo provenendo dal lato sud del confine. Lasciato Panmunjon ci dirigiamo nella città di Keason che nel 1953 si trovò a passare dalla Corea del Sud a quella del Nord. Qui si trova, non visitabile, un’area economica congiunta dove aziende del sud producono e offrono lavoro ad operai del nord. La città fu completamente distrutta dalla guerra, tranne il sito dove sorge il Palazzo Reale dove ha vissuto la dinastia dei Goryeo, coloro che circa mille anni fa riuscirono ad unificare la penisola coreana. Oggi il luogo è un interessante museo rientrante tra i patrimoni Unesco, mentre la città, pulita e ordinata come Pyongyang, è molto famosa anche per la produzione di ginseng. Qui pranziamo e ci riposiamo prima del ritorno verso nord, per l’esattezza nella città di Sariwon per visitare una fattoria agricola modello che produce riso, grano e frutta. La responsabile della fattoria ci racconta come funziona il lavoro in estate e in inverno e spiega che ci sono 1770 persone impegnate nella lavorazione di oltre 700 ettari. Turni da otto ore per dieci squadre di operai agricoli apparentemente felici del lavoro che stanno facendo. Viene sottolineato come dopo la ristrutturazione del lavoro indicata da Kim Il Sung negli anni ‘60 il quantitativo di beni prodotti sia aumentato, diminuendo il rischio di allagamento dovuto alle alluvioni. Qui non si vedono buoi con aratri, ma molte moderne tecnologie finalizzate a migliorare il lavoro duro nei campi.

Ancora un’ora di strada senza traffico e siamo nella capitale per l’ultimo divertente impegno della giornata. Mi viene fatta una curiosa sorpresa e vengo portato a fare un giro in motoscafo nelle acque sul fiume Taedong che attraversa la capitale. La cosa è realmente divertente e vedo finalmente sorridere di vero gusto anche tutta la mia “guardia d’onore”; inoltre posso osservare la città da un altro punto di vista. L’ultima cena avviene in un locale nei pressi del fiume e ho l’impressione di trovarmi in un posto meno per turisti rispetto a quelli frequentati negli altri giorni. Non vedo europei, non vedo cinesi, attorno a noi solo coreani. C’è un tavolo per la delegazione italiana e tra noi quattro il clima è davvero molto amichevole. Per quasi un’ora mi sento assieme a tre amici e non con le tre persone che hanno lavorato per la buona riuscita del viaggio. Mi convinco che anche a loro possa dispiacere la mia partenza di domani. Mantengo questa impressione anche in auto mentre rientriamo all’Hotel Koryo, dato che ripetiamo per ben due volte l’intera canzone “O’ Sole Mio” usando il testo che ho scritto per i miei “compagni” d’avventura durante la cena. Il volo che mi riporterà a Vladivostok sarà nelle primissime ore del mattino e per questo non facciamo troppo tardi chiacchierando nella hall dell’albergo.

Giorno 43 – Una lunga storia italo-russa, intervista a Mark Bernardini

28 luglio 2018. Km 0 – Tot. 14620

La nostra Toyota Hilux è ferma a Vladivostok, il capodelegazione Guido è a portare la Torino-Pechino in Corea del Nord e, mentre attendiamo dettagliati resoconti di questa interessante esperienza, riprendiamo la rubrica “L’Italia ai mondiali siamo noi”. La Coppa del mondo di calcio è in archivio da un pezzo, ma noi continuiamo ad intervistare italiani che vivono lungo il nostro percorso per sentire le loro storie. Qui quella di Mark Bernardini, con cui ci eravamo incontrati alcune settimane fa durante la tappa moscovita del viaggio.

La tua storia familiare è quella di uno stretto legame tra Italia e Russia.

Sì, mio padre era italiano e mia madre russa. Lui, Dino Bernardini, era il figlio di Timoteo (detto Angelino), classe 1901, che era stato uno dei liberatori di Fiume dalla marmaglia dannunziana e poi uno dei fondatori del Partito Comunista d’Italia a Genzano nel 1921. Dopo l’instaurazione del regime fascista, nel 1929, fu condannato al confino fino al 1932, mentre durante la guerra fu catturato dai nazisti altoatesini della Banda Koch, che lo segregarono in una capannetta dove poteva stare solo rannicchiato e dalla quale di tanto in tanto lo tiravano fuori per torturarlo e spingerlo a parlare. Dopo sei mesi, temendo di non poter più resistere a tacere, mio nonno utilizzò un pezzo di latta che aveva trovato scavando con le unghie, si tagliò le vene dei polsi e delle caviglie. Portato in ospedale, fu salvato da un medico che poi lo fece fuggire, facendo credere ai nazisti che fosse morto.

Subito dopo il rientro dal confino ebbe il terzo figlio, mio padre, a cui nel 1956 fu proposto di andare a studiare all’Università di Mosca. Qui conobbe mia madre, figlia di un ebreo russo di Ochakovo, nell’allora Governatorato di Cherson, Aleksandr Pikman, volontario dell’Armata Rossa durante la Guerra civile, che ruppe i ponti con la propria famiglia di origine per sposare una ragazza non ebrea, mia nonna Zinaida, con cui rimase fino alla morte di lui, nel 1984.

Nel 1960 mio padre iniziò a lavorare presso la rivista “Problemi della pace e del socialismo” a Praga, nella Cecoslovacchia socialista, dove io nacqui nel 1962.

Subito dopo la tua famiglia si trasferì a Roma.

Sì, nel 1963. Vissi in questa città fino al 1968 parlando italiano fuori di casa ma solo ed esclusivamente russo dentro casa, per precisa scelta dei miei genitori. In questo modo ebbi la possibilità di diventare da subito perfettamente bilingue. Nel 1968 i miei genitori si separarono e mia madre rientrò in Russia con me, dapprima dai nonni a Ul’janovsk, la città natale di Lenin, poi a Mosca, dove nel 1969 lei iniziò a lavorare nella redazione italiana della casa editrice “Progress”, e tra le altre cose tradusse tutte le fiabe di Gianni Rodari in lingua russa.

Andavo quindi a scuola a Mosca e poi trascorrevo tutte le estati da mio padre in Italia. I primi tempi avevo un po’ di problemi ad abituarmi a passare dall’italiano al russo e viceversa ad ogni spostamento, poi piano piano le due lingue si sono stabilizzate.

Dal 1973, a undici anni, iniziai a fare il contrario: studiavo in Italia e venivo in Russia ogni estate. Dal 1978 ho iniziato ad accompagnare gli studi con le prime traduzioni scritte e dal 1979 a seguire le prime delegazioni, facendo da interprete per esempio a Pajetta, Amendola, Berlinguer e molti altri. Sempre nel 1979, nella sezione PCI Esquilino, subimmo un attentato fascista a colpi di pistola e bombe a mano: rimanemmo feriti in 27, io fui colpito da sette schegge di granata, tre delle quali le porto tuttora in corpo.

Nonostante questo sei rimasto ancora a lungo nel nostro Paese.

Sì, nel 1986 mi trasferii a Milano per lavorare con Interexpo, un’azienda che organizzava fiere collettive italiane in Unione Sovietica, gestita da Luigi Remigio, un ex collega di mio padre ai tempi di Praga. Poi ho lavorato a Reggio Emilia, ancora a Milano, a Montemurlo. Alla fine decisi di tornare nel capoluogo lombardo e mettermi per conto mio, tornando a fare l’interprete di simultanea. In quella fase storica, con l’arrivo di Berlusconi al potere, cominciavo a non riconoscere più quell’Italia dove nel 1973 avevo scelto di vivere. In più pubblicai un libro che raccoglieva la prima satira circolante in rete su Berlusconi, che mi portò un’improvvisa notorietà ma anche moltissimi problemi, dalla perdita di tutti i clienti fino allo sfratto con un sotterfugio.

Senza lavoro e senza casa, mi trovai in una situazione molto difficile e mi arrangiai, per qualche mese, facendo anche il cantante d’opera come corista. Poi l’occasione di lasciare l’Italia mi fu data dalla proposta da parte di Armando Cossutta di un contratto di sei mesi come consulente del gruppo del GUE (Sinistra unita europea) al Parlamento Europeo, a Bruxelles. Nel 2002, scaduto il contratto, decisi di trasferirmi a Mosca.

Ed è iniziata una nuova vita.

Sì, nel 2003, condividendo con lei la cabina di traduzione simultanea, conobbi la mia futura moglie, che sposai l’anno successivo. Nel frattempo abbiamo avuto una figlia, Vera, di 14 anni, e un figlio, Gleb, di otto. Sto benissimo qui a Mosca con la mia famiglia e non ho davvero più nessuna ragione per pensare di tornare in Italia, tanto più dopo che nell’ottobre 2017 è morto mio padre, con cui avevo mantenuto un rapporto molto forte e profondo, e che pochi giorni fa è scomparsa anche la sua vedova, con cui viveva dal 1975.

Tra le altre cose, sei anche il gestore di un gruppo Facebook di grande successo.

Nel 2008 avevo creato un gruppo, “Italiani di Russia”, per dare la possibilità di mettersi in contatto tra loro ai pochi italiani che stavano nella Federazione Russa. Il gruppo è cresciuto ben al di là degli italiani che vivono in Russia e nel 2014 c’è stato un momento di rottura con l’inizio della guerra nel Donbass. In quella fase si sono aggiunti molti altri italiani che volevano sapere come stavano le cose, nonché russi che conoscevano l’italiano, sia residenti in Russia che in Italia, e siamo arrivati a circa 6700 partecipanti. Siamo diventati una sorta di organo di informazione, pur dovendo convivere con i periodici “ban” di Facebook.

Giorno 42 – Il Giorno della Vittoria nordcoreana

27 luglio 2018, Artyom (km 14) – Tot. 14620

La giornata di oggi, nella cittadina periferica dove è collocato l’aeroporto di Vladivostok, comincia con l’arrivo della polizia nel condominio nel quale abbiamo affittato un appartamento che nella descrizione su Booking sembrava messo molto meglio di come si è rivelato. Le forze dell’ordine per fortuna non cercano noi: i poliziotti erano stati infatti chiamati da alcuni inquilini infastiditi da due ragazze che ben prima delle otto del mattino si erano messe ad ascoltare musica a tutto volume nel corridoio che dava sui numerosi appartamenti del piano terra. Quando ce ne andiamo le ragazze, che a quanto pare erano rimaste chiuse fuori casa, stanno cercando senza successo di rientrare passando attraverso la finestra.

Dopo pochi chilometri mettiamo a riposo la Toyota Hilux in uno dei parcheggi dell’aeroporto e l’equipaggio si separa: Guido parte per la Corea del Nord dove già questa sera parteciperà al primo evento dell’intenso programma che lo attende: la celebrazione del Giorno della Vittoria nella data della firma dell’armistizio del 27 luglio 1953 che pose termine alla Guerra di Corea, che prevede per gli ospiti di prendere parte a “danze di massa” per le strade di Pyongyang.

Insieme al capospedizione della Torino-Pechino, nell’Ilyushin della compagnia nordcoreana Air Koryo salgono moltissimi ragazzi: i componenti di un primo gruppo hanno tutti una maglietta blu con scritto “Regione dell’Amur”, mentre un altro è una nutrita delegazione di giovani del Partito Comunista della Federazione Russa con maglietta ufficiale con logo del PCFR e ritratto di Che Guevara.

Emanuele e Marina, prima di ripartire per Mosca, hanno invece l’occasione di passare altre ore ad Artyom, cittadina storicamente impegnata nel settore carbonifero: è per questo motivo che il Giorno della città coincide con il Giorno del minatore (in Russia, già dall’epoca sovietica, ogni professione ha un suo giorno festivo molto sentito) e che in centro, oltre alla statua di Lenin, vi è un bel monumento ad un macchinario utilizzato per scavare miniere e detentore di svariati record di escavazione.

L’escursione della Torino-Pechino in Corea del Nord terminerà il 30 luglio, mentre il giorno successivo la nostra Toyota Hilux a diesel-metano varcherà finalmente il confine russo-cinese per proseguire in direzione della capitale Pechino.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Emanuele Calchetti, Marina Khololei, Bruno Cinghiale

Giorno 41 – Il capolinea della Transiberiana

26 luglio 2018, Vladivostok-Artyom (km 56) – Tot. 14606

Nella giornata di oggi abbiamo in programma di fare turismo a Vladivostok. Prima però il capospedizione Guido deve dedicarsi agli impegni del buon padre di famiglia e quindi cominciamo la mattinata cercando un laboratorio dove lui possa sottoporsi alle periodiche analisi richieste dalle normative russe a chi sta per diventare padre.

Risolta senza problemi questa incombenza, iniziamo il nostro cammino tra i luoghi più significativi della città, accompagnati da un clima molto caldo che con l’andare delle ore diventerà afosissimo. Prima di tutto ci dirigiamo alla stazione, che riveste una particolare importanza perché è il capolinea della più lunga ferrovia del mondo, la Transiberiana. Un apposito cippo ricorda l’ultimo chilometro del tragitto, il numero 9288. Di fronte alla stazione la statua di Lenin indica la strada giusta, mentre a poca distanza vi è un monumento che non immaginavamo di trovare, quello dedicato a Yul Brynner nel luogo dove nel 1920 è nato; per lo meno presumibilmente, visti i grandi misteri che caratterizzano i primi anni della biografia di questo attore, particolarmente apprezzato dal nostro equipaggio soprattutto come protagonista del grande film italo-jugoslavo del 1969 “La battaglia della Neretva”.

Pranziamo bene in una “stolovaya” (mensa) in stile sovietico, dove troviamo uno dei caffè espresso più buoni di tutta la Russia. Dopo averne provati di terribili ovunque, quella di oggi è stata una sorpresa non indifferente.

La piazza centrale di Vladivostok ospita un grande complesso monumentale dedicato ai combattenti per l’instaurazione del potere sovietico nell’Estremo oriente durante la Guerra civile seguita alla Rivoluzione d’ottobre. Il tema della guerra civile è molto in voga nella monumentalistica delle città di questa area della Russia. Dalla piazza si vede in tutta la sua imponenza il nuovissimo ponte che sorge sul Corno d’oro e di cui abbiamo già parlato nel diario di ieri, anche se la visuale è in parte coperta dal cantiere per i lavori di realizzazione di una chiesa.

Nel lungomare un vasto complesso dedicato alla Seconda guerra mondiale ed in particolare alla Flotta del Pacifico ha come elemento culminante un sottomarino S-56 che abbiamo visitato all’interno, dove è suddiviso in una parte museale e una parte conservata come durante la fase di operatività del mezzo. Da lì vicino una vecchia funicolare permette di arrivare in una zona più alta della città da cui, salendo ulteriormente a piedi, si può raggiungere un belvedere che si apre in modo spettacolare sulla città.

Dopo le poco più di 24 ore trascorse a Vladivostok possiamo dire che si tratta di un luogo sicuramente particolare, abbastanza diverso dalle altre città russe, anche per evidenti ragioni logistiche e strutturali, vista la presenza del mare che si insinua in svariati golfi, e i dislivelli altimetrici. La città non appare molto curata ed anche a livello di ricezione turistica non sembra ad oggi particolarmente preparata. Ciononostante la presenza di visitatori stranieri, in particolare cinesi e giapponesi, è sembrata massiccia.

Nel tardo pomeriggio riprendiamo il nostro Toyota Hilux a diesel-metano e ci trasferiamo nella vicina Artyom, cittadina che porta il nome del bolscevico Fyodor Sergeev, detto appunto Artyom, grande protagonista del periodo rivoluzionario in Ucraina, morto nel 1921 durante il viaggio sperimentale di un aerovagone, un particolare treno funzionante tramite eliche aeree. In questa località ha sede l’aeroporto di Vladivostok, da cui i membri dell’equipaggio partiranno nei prossimi giorni in direzioni diverse: Guido per recarsi in Corea del Nord prima di tornare a prendere l’auto ed entrare in Cina, Emanuele e Marina per rientrare a Mosca al termine della loro tappa di viaggio siberiano.

Questa piccola città non offre moltissime soluzioni per cenare e anche la padrona dell’appartamento dove ci fermiamo per la notte non sa suggerirci nulla; uno dei pochissimi locali che ci segnala il motore di ricerca Yandex si rivela però davvero ottimo e ci permette di consumare molto piacevolmente l’ultima cena in cui l’equipaggio è composto dalla formazione presente.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Emanuele Calchetti, Marina Khololei, Bruno Cinghiale.

Giorno 40 – Finalmente l’oceano!

25 luglio 2018, Ussurijsk –  Isola Russkij – Vladivostok (165 km) – Totale 14.550

La giornata che ci vedrà raggiungere Vladivostok inizia con la pessima colazione dell’Hotel Nostalgy e con le ormai classiche lentezze per la registrazione dei nostri visti. Approfittiamo per andare a fotografare alcune delle principali attrazioni di Ussurijsk che avevamo osservato la sera precedente con il buio. Riprendiamo la A-370 con la massima tranquillità visto che il mare non è poi così lontano.

Avvicinandoci a Vladivostok invece del mare cominciamo a scorgere la nebbia. Avevamo letto che in questa zona, nei mesi estivi, la nebbia è un fenomeno particolarmente intenso e che le varie insenature sono tutte caratterizzate da una scarsa visibilità. Se questo è un bene per nascondere navi e sommergibili militari, non è il massimo per noi che vorremmo valorizzare con belle foto questo momento. Il primo dei tre importanti ponti che attraversiamo è quello che serve alla A-370 per superare il Golfo dell’Amur. Il ponte è immerso nella nebbia ma tutto sommato visibile, non come il resto della strada che gira attorno a Vladivostok, dove nelle varie salite e discese attorno alla città si arriva quasi alla completa non visibilità della strada. Vladivostok sorge su una insenatura circondata da alcuni fiordi molto frastagliati, come del resto la terra tutto attorno, isolotti compresi. Diventa facile perdere l’orientamento attraversando il promontorio dove sorge la città, anche per il fatto che il mare compare e scompare sia sulla destra che sulla sinistra. Alla fine del promontorio si attraversa lo stretto del Bosforo Orientale (nome che ricorda Istanbul) con un audace ponte di oltre tre chilometri con una campata centrale di 1.104 metri, la più lunga al mondo. Il ponte ha unito il promontorio di Vladivostok con l’Isola Russkij, che fino a poco tempo fa era un luogo militare usato dall’esercito russo per controllare il traffico attorno all’importante città. Il ponte è alto 70 metri sul livello del mare, ma noi non riusciamo a vedere nulla poiché avvolti nella coltre di nebbia. Nell’isola sorge una importante università e vivono meno di cinquemila abitanti. Incuriosisce la presenza di un ponte che sicuramente è costato cifre enormi per un collegamento non troppo strategico.

La bella strada che attraversa l’isola diventa piccola e sterrata dopo circa dieci chilometri. Da qui decidiamo di scendere sotto la nebbia per raggiungere l’acqua del mare e per poter immortalare in foto e video questo storico momento. Tocchiamo finalmente l’Oceano Pacifico e ce ne prendiamo una bottiglia, come avevamo già fatto in Portogallo con l’acqua dell’Atlantico. Dopo un mese e mezzo di viaggio abbiamo unito Lisbona a Vladivostok, primo obiettivo che la Torino-Pechino si era prefissata. Da Torino i chilometri percorsi sono 14.599, da Lisbona tenuto conto del lungo prologo via Bruxelles poco più di 20.000. I consumi usando il diesel-metano sono attorno ai 18 km/litro di media con dei picchi positivi di 19,2 e negativo di 16,5. Usando il solo gasolio i consumi sono stati attorno ai 12 km/litro con meno di 10 in presenza di autostrade e velocità elevate. Il risparmio economico da noi avuto durante il percorso è attorno al 30-35% a seconda dei ritmi di viaggio e delle velocità sostenute.

All’isola Russkij attiriamo la curiosità di molti bagnanti che affollano le spiagge in pietra: si radunano attorno a noi, fanno domande e chiedono di fare foto assieme. Tutto ciò ci diverte molto e ci permette di raccontare, tra lo stupore generale, da dove siamo partiti. In questo curioso scenario, sempre avvolto dalla fitta nebbia, mangiamo degli spiedini di carne presso un improvvisato venditore di “shashliki” di origine azera che arrostisce carne davanti alla porta di un bunker militare in disuso. Il gestore della curiosa attività ci racconta la storia di suo nonno morto proprio in una delle postazioni del bunker durante uno scontro con i giapponesi durante la Seconda guerra mondiale.

Lasciamo l’isola per tornare nella terraferma e con l’occasione attraversiamo il terzo importante ponte di Vladivostok, quello che supera il “Corno d’Oro”, ancora un volta un nome legato ad Istanbul, che indica la strategica insenatura dove ha sede il porto della città che ospita la potente flotta militare del Pacifico. In questa città tutto è molto caro rispetto alla media del resto della Russia e non ci stupisce pagare il conto più salato dell’intera parte asiatica del viaggio per dormire una notte nel centro di Vladivostok. Dopo aver dedicato tutto il tempo necessario all’aggiornamento degli spazi social dedicati al viaggio, data l’importanza dell’evento odierno, decidiamo di recarci nel centro della città per festeggiare con una consona cena. La nebbia continua a caratterizzare il paesaggio cittadino alternandosi con una sottile e leggera pioggia. Dopo qualche decina di minuti passati alla ricerca di un ristorante adatto, optiamo per un locale bavarese, visto che tutto attorno a noi c’erano solo ristoranti etnici già provati durante il viaggio come il giorgiano, il tataro, il buriato e l’uzbeko.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– La costruzione del ponte dell’isola Russkij e di quello all’interno della città di Vladivostok hanno cambiato completamente il modo di muoversi nella città, agevolando notevolmente gli spostamenti interni. I due ponti sono tra i più lunghi e audaci del mondo.

– L’isola Russkij, da spazio riservato ai militari per quasi un secolo, si è trasformata in un luogo turistico di grande interesse anche se ancora povera di infrastrutture.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Emanuele Calchetti, Marina Khololei, Bruno Cinghiale

Giorno 39 – La Cina è vicina!

24 luglio 2018, Chabarovsk-Ussurijsk (km. 674) – Tot. 14.385
Restituite le chiavi alla agenzia che ci ha affittato il piacevole appartamento in Via Carlo Marx, andiamo diretti ad imboccare l’ultima strada federale della parte russa del nostro viaggio, la A-370, che con i suoi circa 750 chilometri ci porterà all’Oceano Pacifico. Per la prima volta abbandoniamo la direzione est per virare decisamente a sud. E appena fuori Chabarovsk tocchiamo il punto stradale più orientale dell’intero viaggio. La nebbiolina che avvolge la città dove abbiamo dormito si dirada e le temperature sono già alte di primo mattino. Capiamo che andremo incontro ad una giornata decisamente calda, ma non immagiamo che ci saranno 34° per tutto il pomeriggio.
Nei primi cento chilometri di viaggio troviamo difficoltà nel fare colazione. Tutti i piccoli kafè dove sostiamo sono privi dei “pirozhkì” a cui ormai siamo abituati. Finiamo per mangiare delle paste confezionate di un piccolo supermercato oltre a delle ottime banane comprate il giorno precedente. Il paesaggio assume contorni sempre più mediterranei, in alcuni tratti tornano il grano e i girasoli che non vedevamo da quando eravamo in Europa. Scompaiono le betulle, e la vegetazione e la conformazione del territorio attorno a noi ci ricordano i paesaggi toscani anche grazie alle numerose “rotoballe” che notiamo nei campi lungo la strada. Attorno all’ora di pranzo ci fermiamo nei pressi della città di Dal’nerechensk, dove oltre a cibarci decidiamo che è arrivato il momento di lavare l’auto per togliere da esterno ed interno la polvere e lo sporco accumulato in quasi tre settimane di Siberia. Si occupa dell’operazione un efficiente team di wash-girl locali.
Il fiume Ussuri, che segna il confine con la Cina, scorre ai margini di questa cittadina e proviamo ad avvicinarci alle militarizzate sponde per provare a scorgere l’ingombrante vicino di casa. L’impresa si rileva difficile poiché tutte le stradine che scendono verso il fiume sono presidiate dall’esercito russo. A tal proposito è utile ricordare che a pochi chilometri da questa città nel marzo del 1969 scoppiò un conflitto tra Unione Sovietica e Cina per il possesso di una piccola isola, Damanskij in russo e Zhenbao in cinese, al centro del fiume. Tale scontro vide perire circa 150 soldati per parte, anche se i dati esistenti sono piuttosto contrastanti. Ad ogni modo questi numeri sembrano sproporzionati se si pensa al valore strategico della posta in palio; sarebbero stati molto più grandi se l’episodio si fosse esteso ad una vera e propria guerra, come si rischiò che accadesse.
Finalmente riusciamo a trovare una collinetta panoramica, sempre presidiata dall’esercito, ma aperta al passaggio dei civili poiché è presente un cimitero di guerra. Dalla collinetta è possibile, grazie ad una terrazza rialzata in cemento, osservare la Cina e con un buon binocolo anche i movimenti delle guardie di frontiera, oltre alle attività della vicina città di Hutouzhen. Il cimitero di guerra dove ci troviamo è il luogo di sepoltura di alcuni soldati sovietici morti durante la seconda guerra mondiale, nell’agosto del 1945. Anche le rovine attorno al cimitero ora assumono una chiara spiegazione. In questa altura avvenne uno scontro tra i giapponesi che occupavano la Manciuria cinese e le truppe sovietiche che su richiesta degli Stati Uniti aprirono nell’estate del 1945 un secondo fronte contro il Giappone. Incredibile pensare che tra le vittime potrebbero esserci sopravvissuti alle battaglie di Stalingrado o Berlino che settimane dopo la fine della guerra in Europa potrebbero essere finiti a morire nell’Estremo oriente.
Il viaggio riprende con l’obiettivo di avvicinarsi il più possibile a Vladivostok senza entrarvi per lasciare alla mattina successiva, con tutte le energie del riposo, la soddisfazione per il compimento dell’impresa. Il caldo e i panorami toscano-maremmani continuano a scorrere sotto i nostri occhi, intervallati da qualche centrale elettrica e dall’enorme cementificio, che merita di essere citato, di Spassk-Dal’nij. Qui beviamo un caffè in un curioso bar orgogliosamente dedicato alla storia del cementificio locale. Una curiosità che non viene subito colta guardando un atlante geografico è che siamo esattamente alla stessa latitudine di Sansepolcro, nostra terra di origine. Questo spiega il perché della vegetazione mediterranea e del caldo compatibile con la toscana alla fine di luglio. Un altro elemento di riflessione è che nonostante siamo a pochi chilometri dalla Cina, dalla Corea e poche miglia marine dal Giappone, nulla in questa parte di Russia ci ricorda di essere in Asia. Paradossalmente è come vivere in una lunghissima appendice d’Europa che si spinge fino al confine con queste tre storiche culture. Ci fermiamo a circa cento chilometri da Vladivostok, presso la città di Ussurijsk, che in Russia tutti conoscono per essere una sorta di capitale della tigre siberiana. Non è un caso che nella piazza principale del paese si possa trovare la statua del guardiacaccia con il cucciolo di tigre. Questa specie, una dei più grossi felini del pianeta, fino a poco tempo fa era in serio rischio di estinzione. Oggi si stima che gli esemplari dovrebbero essere tornati sopra al centinaio di unità. Come è facile immaginare il pericolo non è affatto rientrato, ma il lavoro delle autorità russe, cinesi e nordcoreane per favorire il ripopolamento sta dando i risultati sperati. L’hotel Nostalgy e il suo kafè del piano terra ospitano il nostro ultimo riposo prima dell’arrivo a Vladivostok e sull’oceano!
 
Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– Si è imboccata la giusta strada per salvare la tigre siberiana, detta anche tigre dell’Ussuri. Se negli anni passati il numero degli animali continuava a diminuire, finalmente grazie ad un massiccio lavoro che coinvolge Russia, Cina e Corea del Nord, il grande felino è tornato a popolare il territorio dell’Estremo oriente.
Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Emanuele Calchetti, Marina Khololei, Bruno Cinghiale

 

Giorno 38 – Con il metano fino all’oceano!

23 luglio 2018, Chabarovsk (5 km) – Tot. 13.711

Finalmente un notte tranquilla in un appartamento con tutte le carte in regola e senza problemi di pulizia, umidità o letti poco confortevoli. Il primo impegno della mattinata è una sorpresa da parte di Gazprom e del responsabile per lo sviluppo della filiale italiana Sergej Colin, che alcuni giorni fa ci avevano segnalato la possibilità di fare un rifornimento in una stazione privata situata a Chabarovsk, previo contatto con il responsabile, il signor Aleksej: l’operazione va in porto e veniamo autorizzati a rifornirci in questo luogo “non ufficiale” e non segnalato da nessun sito o carta del mondo del metano. Ci dirigiamo in una zona periferica della città dove in un piazzale in mezzo ad alcuni edifici con attività legate al settore meccanico vediamo alcuni autobus di fabbricazione cinese con evidenti scritte CNG o NGV, indicanti il metano. Qui c’è il quartier generale della realtà guidata da Aleksej che si occupa di rifornire gli autobus a metano della città attraverso carri bombolai che prelevano il gas del metanodotto proveniente dall’isola di Sakhalin. Aleksej ci offre il pieno di metano ed è un piacere agganciare la nostra Hilux all’attacco europeo presente sul carro bombolaio e poter tornare ad usare il gas naturale assieme al gasolio. C’è stupore ed interesse nei nostri confronti e non mancano domande sul diesel-metano e sul nostro viaggio. Foto di rito e ripartenza verso la nostra casa dove lasceremo parcheggiata la Hilux per l’intera giornata. A questo punto è evidente che riusciremo a coprire la distanza che ci separa da Vladivostok e dall’Oceano Pacifico usando nuovamente il diesel-metano. Allo stesso tempo con questo pieno saremo in grado di varcare la frontiera cinese per poi cominciare a cercare le stazioni di metano anche prima di Pechino. Dei 14.500 chilometri che avremo percorso una volta raggiunto l’oceano, solo circa 2.200 (pari al 15% della distanza complessiva) sono stati percorsi senza metano. Non era possibile fare diversamente dato che pur di rifornire in tutte le stazioni utili, e coprire l’85% del percorso usando il metano, abbiamo anche allungato di oltre 400 chilometri l’intero viaggio.

La giornata di relax a Chabarovsk prosegue usando i già citati autobus cittadini a metano, prevalentemente “made in Cina”, che hanno sostituito molti dei vecchi e inquinanti bus russi. La soluzione del diesel-metano sarebbe perfetta per i vecchi autobus che circolano in Russia, ma almeno qui a Chabarovsk ancora siamo lontani dall’importare questo tipo di tecnologia. Prima tappa nella floreale Piazza Lenin, dove oltre alla statua del noto leader si possono ammirare aiuole e fontane. Qui incontriamo Mr. Ding, un giovane cinese incuriosito dalle nostra magliette della Torino-Pechino. Con lui scambiamo qualche parola sul prosieguo del nostro viaggio in Cina. Piacevole passeggiata nella strada principale della città, Ulica Muravyova-Amurskogo, che conduce fino ad un belvedere che domina dall’alto l’ansa del grande fiume Amur. Poco lontano si trova il luna park con vicino una spiaggia sul fiume molto frequentata. Proviamo la ruota panoramica per vedere dall’alto la città e ci gustiamo degli ottimi shashliki (spiedini di carne) in uno dei ristoranti del parco giochi. Sazi di cibo ci cimentiamo nella risalita della collinetta che domina l’Amur e dove si trova il monumentale luogo dove si ricordano le vittime della Grande Guerra Patriottica con la consueta fiamma eterna. Tutti i nomi dei caduti di questa regione sono elencati in grandi pareti e tutto ciò fa una discreta impressione. Contrapposto a questo monumento ce n’è uno più piccolo con tutti i morti di altri conflitti in cui Urss e Russia hanno partecipato. I nomi degli ultimi quattro caduti in Siria sono molto recenti.

Con il bus a metano ci rechiamo nei pressi della stazione della Ferrovia Transiberiana per provare a visitare l’interessante museo dedicato alla costruzione della ferrovia in estremo oriente. Purtroppo il museo è chiuso per restauro, esattamente come scritto nella nostra guida risalente al 2006. Ci consoliamo con la bella statua di Erofej Pavlovich Chabarovsk, esploratore russo che nel diciassettesimo secolo contribuì alla conquista di queste terre e che ha dato il nome, anzi il “cognome”, a questa grande città, mentre nome e patronomico li ha dati a Erofej Pavlovich, il piccolo avamposto dove abbiamo dormito alcune notti fa dopo la fine del difficile tratto di strada dopo Chita.

In vista della partenza di domani mattina verso Vladivostok decidiamo di ripetere la cena casalinga a base di pelmeni e non dormire troppo tardi.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Rispetto a dieci anni fa a Chabarovsk è arrivato il metano. Grazie all’intraprendenza degli amici che ci hanno regalato il rifornimento odierno, oggi questa città è dotata di numerosi bus a metano e di alcuni mezzi a gas naturale. Il percorso verso l’apertura di una stazione di rifornimento pubblica non richiederà molto tempo.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Emanuele Calchetti, Marina Khololei, Bruno Cinghiale

Giorno 37 – Viva l’Amur!

22 luglio 2018, Birobidhzan-Chabarovsk (188 km) – Tot. 13.706

Nonostante una forte umidità presente nelle nostre stanze, riusciamo a concludere una lunga dormita nell’ennesima angusta sistemazione che ci ospita. Abbandoniamo l’alloggio attorno a mezzogiorno e ritorniamo nel cuore di Birobidzhan per la visita alla sinagoga e al centro culturale-museo dedicato alla storia di questo luogo. Il complesso si trova non lontano dalla stazione ferroviaria ed è moderno. La maggior parte delle tracce rimaste dei novanta anni di ebraismo in questa terra sono visibili all’interno della piccola esposizione museale, che ospita oggetti e giornali originali degli anni ‘20, ‘30 e ‘40 del secolo scorso. Come abbiamo raccontato ieri, la migrazione degli ebrei, che vivevano principalmente in Bielorussia e Ucraina, cominciò nel 1927, incoraggiata dallo stato sovietico che aveva bisogno di coloni che presidiassero la lunga frontiera cinese e facessero nascere città lungo la Ferrovia Transiberiana. Nel corso dei primi anni circa 40.000 persone arrivarono qui con il mito della possibilità di creare una entità autonoma ebraica all’interno dell’Unione Sovietica, cosa che avvenne nel 1935. Le condizioni di vita in questo luogo non erano delle migliori. La zona era paludosa ed edificare la città non fu semplice. Se a questo aggiungiamo i rigori dell’inverno si può facilmente capire perché molti di loro nei decenni successivi abbandonarono la regione. Il colpo di grazia avvenne con la caduta dell’Urss e con la possibilità per molti ebrei di espatriare in Israele. Da quel momento la comunità locale si è ridotta ad un numero marginale e desta in noi ammirazione vedere che viene mantenuta aperta una scuola dove si può imparare l’yiddish, che almeno sulla carta è la seconda lingua ufficiale dell’Oblast’ Autonoma Ebraica.

Il richiamo della domenica italiana ci porta a concederci un piatto di pasta, sempre al “Felicità”, assolutamente non all’altezza della situazione e delle aspettative che avevamo. Riprendiamo il viaggio verso l’Oceano Pacifico e verso la città di Chabarovsk, facile obiettivo di giornata e lontano meno di 200 chilometri da Birobidzhan. La P-297 è ormai tornata ad essere una stradina che attraversa villaggi e questo alza molto i tempi di percorrenza. Tornano anche i fitti autovelox e la polizia pronta a sanzionare gli autisti indisciplinati. Pochi chilometri prima di Chabarovsk, in concomitanza con l’attraversamento del grande fiume Amur, chiudiamo la nostra esperienza ebraica per entrare nel Kraj (territorio) di Chabarobsk. L’Amur per gran parte del suo corso segna il confine con la Cina costituendo un punto di contatto importante per commercio e contrabbando. Se d’estate la massa d’acqua è attraversabile solo con barche, d’inverno grazie al ghiaccio diventa una autostrada per trafficanti di ogni cosa possibile tra Cina e Russia. Con questa vasta ansa l’Amur svolta verso nord andando a sfociare molto lontano da qui, mentre il confine con la Cina prosegue lungo l’affluente Ussuri. Molte delle cose che conosciamo relative al fiume Amur sono legate alla lettura di “Buonanotte Signor Lenin” di Tiziano Terzani. Lo scrittore toscano si trovava in navigazione lungo l’Amur durante il golpe dell’agosto del 1991 e riuscì a vivere in una posizione giornalisticamente privilegiata tutto il calvario che portò a fine anno alla dissoluzione del più vasto paese del mondo.

Troviamo un piacevole alloggio alla periferia est di Chabarovsk dove decidiamo di trascorrere due notti per poter visitare con la massima tranquillità l’importante città. Questo sarà il luogo dove dormiremo più ad est dell’intero viaggio, visto che da domani la strada oltre che in direzione sud piegherà anche verso ovest. Serata casalinga a base di pelmeni comprati al negozio vicino casa. Serve riposo per gestire al meglio le energie in vista degli ultimi 750 chilometri per raggiungere Vladivostok e l’Oceano.

Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– Dieci anni fa la soluzione dell’alloggio temporaneo in un appartamento privato era poco in uso. Basta pensare che nell’intero viaggio del 2008 potemmo adottare questa soluzione soltanto una volta.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Emanuele Calchetti, Marina Khololei, Bruno Cinghiale

Giorno 36 – La terra promessa

21 luglio 2018, Belogorsk-Birobidhzan (km.473) – Tot. 13.518

Nelle prime ore del mattino lasciamo il malsano Hotel Vstrecha (“Incontro”), dove decidiamo di non fare neppure colazione. Per il terzo giorno consecutivo continua la strada buona, ma come sempre priva di servizi essenziali. Riusciamo a berci un caffè e mangiare qualcosa di caldo solo dopo 140 chilometri, mentre per il quotidiano pieno di gasolio si devono aspettare oltre 200 chilometri dopo la partenza. Il paesaggio continua ad essere caratterizzato dal verde intenso, ma oggi le montagne sono declassate a collinette e c’è una grande presenza di pianure con fiumi, torrenti, stagni e laghetti. In questo scenario raggiungiamo un nuovo confine amministrativo dove per l’ultima volta spostiamo le lancette dell’orologio un’ora avanti passando a +8 dall’Italia e +7 da Mosca. Finisce l’oblast dell’Amur per lasciare spazio ad una delle entità geografiche più curiose della Russia. Entriamo con le consuete foto di rito nell’Oblast’ Autonoma Ebraica, una terra caratterizzata da una storia molto interessante che racconteremo più avanti. Da questo momento la strada P-297 ricomincia ad attraversare i piccoli paesi e di conseguenza ad aumentare le possibilità di consumare un pasto. Nei pressi del paesino di Izvestkovyj ci fermiamo in un desolato kafè dove incontriamo il titolare Vasilij, 71 anni, che oltre ad offrirci vodka che gentilmente rifiutiamo ci racconta il suo sogno di diventare poligamo, oltre che manifestare amicizia e simpatia verso l’Italia. Dopo giorni che ci siamo sentiti trattare come spie o come pericolosi terroristi, l’amicizia di Vasilij è un buon segnale di ritorno ad una situazione più normale per gli stranieri.

Ancora due ore di strada in mezzo alle solite valli e fitta vegetazione ed arriviamo a Birobidzhan, capoluogo amministrativo della regione. Qui ci aspetta l’ennesimo curioso alloggio prenotato via booking. Finiamo in una specie di piano interrato e ci dividiamo in due stanze, una doppia che può essere definita normale ed una singola della grandezza di due metri quadri. L’abbiamo misurata. Dopo essersi rilassati andiamo a fare turismo in questa eccentrica città dove i nomi delle strade e molti cartelli stradali sono scritti in russo e in yiddish. Sul piazzale della stazione ferroviaria, giusto per dare il benvenuto a coloro che arrivano in treno, praticamente tutti tranne noi, c’è una “menorah”, il tipico candelabro a sette braccia simbolo della religione ebraica. Poco oltre si incontra un curioso monumento a forma di carretto trainato da un cavallo con a bordo due dei primi coloni di origine ebraica che arrivarono qui nel 1927 con la speranza di poter contribuire allo sviluppo e crescita della “terra promessa”. La scelta di questa area da colonizzare non arrivava dai libri sacri della religione ebraica, ma semmai da Stalin e dal sistema di potere sovietico desideroso di popolare queste delicate aree al confine con la Cina. La parte interessante della città è raccolta tra la stazione e il fiume Bira che assieme all’affluente Bidzhan danno il nome alla città. Naturalmente non manca la statua di Lenin, il Parco dedicato alla Grande Guerra Patriottica, un bel lungofiume e addirittura un monumento, non in buone condizioni, che sancisce l’amicizia tra la Russia e la davvero vicina Cina. Guardiamo velocemente anche il centro culturale ebraico e la vicina sinagoga, dato che occuperemo tempo per visitare questo complesso e il relativo museo che racconta la storia di questo territorio nella giornata di domani.

Come ieri, attorno alle 12.30 dell’orario italiano ci colleghiamo per una diretta con gli amici di EcoFuturo con i quali facciamo il punto della situazione relativa al nostro viaggio. A seguire, dopo giorni di pasti difficili e spesso senza la possibilità di scegliere, sentiamo il bisogno di andare alla pizzeria Felicità, non lontana dalla stazione ferroviaria e non gestita da italiani. La pizza è poco simile a quella “made in Italy”, ma le foto nelle pareti sono tutte di città e personaggi della nostra Penisola. Rientriamo nelle nostre stanze prima del consueto per cercare di riposare il maggior tempo possibile. Come è cambiato il mondo in dieci anni?

– In questa zona del mondo la maggior parte delle auto ha la guida a destra. Si tratta di auto importate dal Giappone e destinate a circolare nei paesi con guida a sinistra. Dieci anni fa il fenomeno era diffuso pure nella Russia europea e le auto “nuove” arrivavamo dopo un viaggio di 10.000 chilometri via terra lungo strade non facili. Il fenomeno di coloro che guidano auto dal porto di Vladivostok fino all’Europa per poi rivenderle è in netto calo, ma l’arrivo di auto con guida a destra non è scomparso.

Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Emanuele Calchetti, Marina Khololei, Bruno Cinghiale.