Olgij-Karakol (km. 437) – Tot. 21.159
Il vetusto e decadente hotel Duman offre una colazione modesta, ma che si rivelerà molto importante nel corso della giornata. Finiamo i tugrik mongoli con un pieno di gasolio a prezzo conveniente e partiamo verso il confine russo-mongolo. I primi settanta chilometri sono asfaltati e gli ultimi trenta sono pessimi. Dobbiamo essere prudenti vista l’assenza della ruota di scorta. Arriviamo al piccolissimo paese di Ulaan Baishint qualche minuto prima dell’apertura della dogana prevista per le 9.30. Siamo la quarta auto e c’è cauto ottimismo sulle tempistiche. In effetti il controllo doganale sul lato mongolo avviene in tempi rapidi nonostante sia ostacolato da una mandria di mucche che non vuole liberare il piazzale della
postazione doganale. Da qui si percorrono altri nove chilometri di pista per arrivare ad un cancello chiuso dove un soldato russo è di guardia. Questo è il vero e proprio punto di confine e quando si accumulano due o tre veicoli viene aperto il cancello. Siamo in altura: anche se ignoriamo l’esatta altitudine, ci troviamo oltre i duemila metri. Nella parte russa ricomincia l’asfalto e dopo poco meno di venti chilometri arriviamo al punto di controllo russo, presso il villaggio di Tashanta, dove trascorreremo piacevolmente circa quattro ore. Le ispezioni passano veloci, il problema dove la fila si blocca è solamente burocratico. Gli addetti ai documenti relativi alle auto non russe lavorano molto lentamente. I russi, che non hanno bisogno di questo documento, passano senza problemi. Noi, gli altri europei e i mongoli siamo in attesa del nostro turno. Finalmente nel primo pomeriggio arriva una seconda addetta a questa procedura che decide deliberatamente di occuparsi dei quattro mezzi europei. Oltre a noi ci sono: il tedesco Jonas con la
moglie e la bimba di dieci mesi con cui avevamo trascorso del tempo a Krasnojarsk un mese fa, Vlad il motociclista polacco entrato con noi in Mongolia dal confine di Khiakta e due coniugi francesi, Caroline e Christian, con un camion tipo quelli della Parigi-Dakar. Molti europei sono in fila anche sull’altro lato, per entrare in Mongolia, e sono quasi tutti equipaggi del Mongol Rally. Tra i tanti notiamo una panda italiana alla quale forniamo indicazioni sulle problematiche stradali in Mongolia. Uno dopo l’altro riusciamo a passare il confine e dopo circa trenta chilometri, presso il paesone di Kos Agac, ci fermiamo tutti senza esserci accordati nello stesso kafè per un frugale e necessario pasto. Seguono le foto commemorative dell’evento.
Per la Toyota Hilux incombe l’esigenza di riparare la gomma forata e tentare il lavaggio del veicolo ormai irriconoscibile. In dogana abbiamo dovuto almeno pulire dalla polvere le targhe e i fari. A tal proposito è molto interessante il fatto che il furgone di Jonas, nonostante abbia perso la targa, sia passato in dogana senza alcun problema. Sempre a Kos Agac troviamo uno “shinomontazh” (gommista) che si occupa di accomodare la ruota e di rimetterla al proprio posto. Il prezzo è davvero economico al punto che converrebbe venire qui a fare questo tipo di lavori!
Siamo sorpresi dalla bellezza della Repubblica degli Altaj, di cui in effetti avevamo sentito parlare molto bene da amici russi. La zona è popolata dall’etnia che dà il nome alla Repubblica, da russi e da kazaki. La strada segue per molti chilometri un altopiano prima di gettarsi nella valle di un fiume che chilometro
dopo chilometro aumenta di portata, ingrossato dalla nevi ancora presenti nei monti attorno a noi. Capiamo che la lunga sosta in dogana non ci permetterà di raggiungere il capoluogo Gorno-Altajsk che doveva essere l’obiettivo di giornata per tentare di entrare in Kazakistan già domani. Anche il tramonto è davvero bello in questo scenario montano. L’oscurità rallenta ulteriormente la nostra marcia, visto che per ben due volte rischiamo di scontrarci con dei cavalli a passeggio lungo la strada. Proprio per questo decidiamo di sostare in una specie di camping nel microscopico villaggio di Karakol, circa dieci chilometri dopo la più grande Ongudaj. Ci viene assegnata una micro-casina senza bagno. I servizi igenici sono all’interno di un casottino ubicato nel campo dietro la casetta. Molto bello scoprire che all’interno del bagno c’è un vero water e non il solito buco sulla terra. Non c’è nulla di aperto per cenare e siamo costretti ad accontentarci di alcuni “pirozhki” di un vicino negozio lungo la P-256 “Chuyskiy Trakt”, la strada che ci condurrà domani a Gorno-Altajsk.
Come è cambiato il mondo in dieci anni?
– La strada che attraversa la Repubblica dell’Altaj e arriva fino al confine di Tashanta è completamente asfaltata e in ottime condizioni. Dieci anni fa no.
Equipaggio del giorno: Guido Guerrini, Bruno Cinghiale
intervallano la lunga tirata per guadagnare più tempo possibile nella parte buona. Da segnalare, purtroppo anche qui in Mongolia, il crollo di un ponte su un piccolo torrente. Il fatto deve essere accaduto da poco visto che gli operai dell’Anas locale stanno allestendo la segnaletica finalizzata a deviare il traffico su una vecchia pista. Allo stesso tempo troviamo due allagamenti della sede stradale a causa delle piogge degli ultimi giorni. Non è un problema per l’Hilux attraversare questi piccoli laghi appoggiando le ruote saldamente nell’asfalto. L’ottima strada permette un’andatura attorno ai cento orari. Da segnalare che buona parte del percorso odierno si sviluppa tra i duemila e i duemilaseicento metri di altezza. A causa delle quote elevate gli yak sostituiscono le mucche nei pascoli attorno alla strada. In alcuni tratti attorno a noi ci sono montagne
che superano i 4.000 metri e che sono ricoperte di neve.
vento e neppure una radio troppo alta di un’altra auto di passaggio. La gomma posteriore sinistra si sta sgonfiando. Appena il tempo di percorrere altri trecento metri per cercare un fondo stradale non sabbioso e la ruota è completamente a terra. Non ci disperiamo dato l’orario non proibitivo. Semmai il problema è se e come proseguire senza la ruota di scorta una volta che avremo sostituito quella bucata. Recuperiamo tutta l’attrezzatura necessaria per lavorare, ma da subito emergono problemi sia nel posizionare il crick e sia nello svitare i bulloni della ruota. Chi ha viaggiato in Mongolia in auto conosce bene il fatto che da qualche parte c’è sempre qualcuno che salterà fuori per darti una mano, anche dove non c’è nessuno a perdita d’occhio. La tradizione è rispettata quando si ferma una motocicletta con a bordo due individui che saranno molto utili per il prosieguo dei lavori. Prendono in mano la situazione e recuperata una grossa pietra su cui appoggiare il crick organizzano anche il sistema per svitare i bulloni. I due mongoli tengono la chiave a croce e Guido, il più pesante, deve usare i propri novanta chili come leva. L’operazione riesce alla perfezione e nel giro di mezz’ora la gomma è cambiata. La ricompensa, assolutamente non richiesta, è meritata. La fatica per cambiare una gomma ad alta quota è grande e per riprendere una normale respirazione serviranno alcuni minuti.
circa novanta chilometri di distanza. Se tornassimo indietro diventerebbe impossibile raggiungere Olgij entro sera. La velocità rimane stabilmente sotto i 30 orari con la consapevolezza che una ulteriore foratura potrebbe creare problemi quasi insormontabili. I chilometri non sono molti, ma la complessità della strada è massima. Si sale fino a 2.600 metri sul livello del mare attraversando zone molto belle dove è possibile anche incontrare la locale fauna selvatica. Le poche volte che siamo rimasti soli ci è capitato di sbagliare strada, cosa che non aiuta nella gestione del tempo. Proprio a causa di ciò e in modo del tutto abusivo percorriamo alcuni piccoli tratti di una strada in costruzione ignorando i divieti che impedirebbero di farlo. Questa trasgressione si rende necessaria per recuperare prezioso tempo e per tranquillizzarci per qualche chilometro sulla salute delle nostre restanti gomme.
Bajanhogor finisce l’asfalto e comincia il previsto tratto di pista. Sostiamo in un negozio per acquistare cibarie ed acqua utile in caso di problemi in mezzo al nulla che ci aspetta. La signora del negozio parla russo e alla domanda sulle condizioni della strada che percorreremo ci dice che con un mezzo come il nostro ci metteremo solo dieci ore per raggiungere Altaj, il luogo dove proveremo ad arrivare. Le parole ascoltate non sono affatto confortanti e neppure il primo tratto di pista dove sbagliamo direzione un paio di volte, anche per merito della inesistente strada caricata nelle mappe di google. Torniamo a declassare il telefonino a ruolo di bussola ed utilizzare la vecchia ed infallibile mappa cartacea, oltre a cercare di rimanere sempre assieme a camion che conoscono la giusta direzione e quale tra le decine di piste che vanno verso ovest sia quella con il fondo in migliori condizioni. Ogni venti-trenta chilometri chiediamo conferma della direzione anche ai pastori che spesso controllano i gregge usando motociclette da cross. Proprio uno dei pastori ci indica un elettrodotto poco distante che raggiunge Altaj e che quindi può essere un buon punto di riferimento. La media è di circa 30-35 chilometri ogni ora con punte massime di velocità che toccano i 50 km/h e in un paio di rare occasioni abbiamo usato anche la quarta marcia. La strada è sempre al di sopra dei 2000 metri, con un’altezza massima raggiunta di circa 2500. Gli alberi sono completamente assenti e il fondo stradale è prevalentemente in terra battuta che in questi giorni di pioggia tende a diventare fango. Non ci sono
guadi significativi grazie ai numerosi ponti di recente costruzione. Questo aspetto non deve essere trascurato visto che tutti i fiumi sono in piena e un guado senza ponti sarebbe risultato impossibile anche per un carro armato. Non manca, a tal proposito, una bella pioggia intensa di circa due ore utile a complicare la guida.
L’ultima parte di strada prima del luogo indicato dall’oste è però costituito da una zona molto acquitrinosa. Attraversiamo due difficili tratti sfruttando le quattro ruote motrici del nostro veicolo e al terzo tratto lungo una cinquantina di metri forse pecchiamo di superficialità visto che sprofondiamo nel fango. Per l’esattezza la macchina si impantana del tutto a meno di un metro dalla fine del tratto fangoso. Le ruote girano a vuoto nonostante l’uso delle marce ridotte. Non perdiamo la calma visti i due analoghi episodi del 2008 quando ci insabbiammo con la vecchia Marea. Di solito entro pochi minuti passa sempre qualcuno che può tirarti fuori. Ricordiamo che queste strade sono percorse anche da auto senza trazione integrale ed è educazione che i fuoristrada aiutino coloro che rimangono bloccati nelle varie situazioni possibili. Una jeep si offre di tirarci fuori e il paradosso è che possiamo agganciare la fune metallica alla parte anteriore della Hilux senza sporcarci visto che l’asciutto si trova veramente a pochi centimetri dal parafango oltre che dallo sportello lato passeggeri. L’impegno è minimo e in pochi
secondi siamo fuori dal pantano con la nostra auto ben segnata dal marrone che ci ha avvolto. Lasciamo una ricompensa ai soccorritori che decidono di donarci il loro cavo metallico da traino per fare in modo che possiamo essere attrezzati in caso di future nuove difficoltà.
Il viaggio prosegue su strada buona e l’unico pericolo è costituito da pecore, capre, mucche e cavalli, sempre in branchi, che spesso attraversano il nostro percorso. A circa duecento chilometri dalla capitale fanno il loro esordio nella nostra collezione di animali stradali i cammelli!
Negli ultimi duecento chilometri torna il verde alternato a zone rocciose. Alla guida c’è Andrea che dovrà fare i conti con qualche chilometro di pista e con un pessimo fondo stradale anche in presenza di asfalto. Il pedaggio di meno di mezzo euro ci annuncia che siamo ormai prossimi ad Arvajheer, il paese dove c’è la missione coordinata da Padre Ernesto assieme a Padre Giorgio e Padre Dido. Proprio quest’ultimo, di origine congolese, ci accoglie all’interno dell’interessante struttura. Come primo atto ci viene offerto un graditissimo caffè fatto con la
moka. Si uniscono a noi anche le tre suore che vivono nella missione. In muratura c’è solo il centro dove vivono i sacerdoti e le suore e un’ulteriore parte dedicata agli ospiti. Con nostra sorpresa notiamo che la chiesa non è una struttura in mattoni o cemento, ma una gher mongola. All’interno c’è tutto quello che si può trovare in una chiesa, ma con la caratteristica di forma e struttura senza dubbio originali. Nelle altre gher posizionate all’interno dello spazio occupato dalla missione ci sono due oratori dove tutti i bambini della città – cattolici sono qualche decina su 20.000
abitanti – possono giocare, studiare o comunque trascorrere tempo. Lo spirito della missione non è quello di contabilizzare battesimi in una terra dove il cattolicesimo è arrivato da appena ventiquattro anni, ma cercare di fornire appoggio alle famiglie locali. Interessante anche il centro dedicato al sostegno e recupero delle persone con problemi di alcolismo e quello dove le donne della città possono lavorare borse e altri oggetti simili da poter vendere grazie ai contatti della missione. Non manca lo spazio dedicato alla coltivazione in serra di verdure quasi introvabili in Mongolia.

La nostra domenica ad Ulan Bator comincia in stile italiano grazie ad un perfetto espresso bevuto in tarda mattinata nel piccolo caffè “Ti Amo”. La città è quasi deserta e questo concilia molto la passeggiata nella parte centrale della capitale mongola. La piazza dove si trova il parlamento, il Grande Hural, è dedicata a Sukhbaatar e al centro si trova una statua dell’eroe mongolo a cavallo. Ricordavamo la statua di colore rosso mentre oggi è nera. Sulla parte centrale del palazzo del parlamento, al posto del mausoleo che ospitava fino al 2005 le spoglie di Sukhbaatar, c’è oggi una statua di Gengis Khan seduto.
La cosa più impressionante è la presenza di enormi palazzi, anche grattacieli, sul lato meridionale della piazza. Guardando le fotografie del 2008 possiamo notare solo uno di questi in costruzione. L’espansione urbana della città è ben visibile soprattutto in periferia, dove si affollano centinaia di gher e nuove case di quella parte della popolazione che si sposta in cerca di fortuna nella capitale. Dieci anni fa la popolazione era attorno al milione mentre oggi si sono aggiunte altre 500.000 persone. Anche l’intera Mongolia sta vivendo un boom demografico visto che, analizzando sempre lo stesso periodo, si sono superati i tre milioni contro i due e mezzo del 2008. I palazzi del centro non sono destinati ai nuovi residenti, ma piuttosto ad uffici di compagnie private che si occupano di sfruttamento delle risorse minerarie del paese.
Lasciando la piazza finalmente ritroviamo qualcosa di simile al viaggio precedente: il telefonista pubblico. Trattasi di un simpatico personaggio che da sempre è accampato attorno all’ufficio postale centrale offrendo con un radiotelefono la possibilità di telefonare a prezzi modesti. A questo servizio abbinava anche la possibilità di pesarsi in una bilancia e la vendita di fiammiferi. Il tipo è sempre quello e dimostra la stessa simpatia che cogliemmo nelle foto scattate nel 2008. Siamo ben felici, per 10 centesimi di euro, di ripetere la nostra pesatura e comprare una scatola di cerini.
Arriva l’ora dell’incontro con Padre Ernesto e insieme ci rechiamo a mangiare qualcosa in un pub del centro. Qui ascoltiamo ben volentieri i progressi che la missione da lui coordinata ha effettuato in questi dieci anni. Ci eravamo lasciati nel 2008 con circa quattrocento cattolici in un paese dove il cristianesimo non è mai esistito in precedenza. Oggi i cattolici sono triplicati e sono sorte sei parrocchie in quattro diverse città della Mongolia centrale. Non entriamo nei particolati dell’attività di Padre Ernesto poiché nella giornata di domani potremo visitare una delle missioni nella città di Arvajheer. La cosa che giudichiamo interessante è il fatto che la Chiesa in questa terra ha scelto una politica di evangelizzazione non aggressiva, prediligendo la creazione di scuole o centri professionali rispetto al proselitismo. L’umanità e semplicità con cui Padre Ernesto racconta il proprio impegno per cercare di migliorare la situazione nelle periferie di Ulan Bator o nei paesini sperduti è davvero ammirevole. Siamo ben lieti di ritrovare questo missionario con lo stesso entusiasmo con cui lo avevamo incontrato la prima volta nel 2008. Affrontiamo anche il tema della situazione sociale ed economica in Mongolia e parliamo anche delle strade che dovremo percorrere nei prossimi giorni per raggiungere, attraverso percorsi asfaltati e altri in terra battuta, il confine più occidentale tra la Russia e la Mongolia. La serata si conclude con una ulteriore passeggiata nell’isola pedonale di Seul Street, strada molto animata e ricca di gruppi o solisti impegnati in musica dal vivo.
Saldato il conto partiamo per Ulan Bator, consapevoli che la giornata sarà volutamente lunga e dedicata anche a molti chilometri fuori dalla strada principale per vedere come si vive nelle gher, le tipiche tende mongole. Dopo pochi chilometri ci avviciniamo infatti ad un piccolo insediamento di pastori e timidamente cominciamo a interagire con gli abitanti di un gruppetto di gher. Nonostante la difficoltà di comunicazione verbale riusciamo ad entrare in sintonia grazie alla sempre valida gestualità e ad un reciproco scambio di doni: magliette, penne e
cappellini dei nostri sponsor vengono ricambiati con del formaggio, latte ed un giro a cavallo. Il tutto si conclude con una foto di gruppo e tanti sorrisi. Riprendiamo la nostra strada arricchiti da una sensazione di gratitudine per questa piccola lezione di vita e generosità offertaci nella massima semplicità.
fermiamo quindi per il pranzo nella cittadina di Darkhan, che ci appare molto diversa da come la ricordavamo. Non riusciamo a ritrovare il locale dove avevamo mangiato la volta scorsa e optiamo per un piccolo ristorantino dove ci viene servito un abbondante piatto di plov che, seppur non molto fedele alla ricetta originale, risulta comunque gustoso.
L’entrata nella capitale è al tramonto e in mezzo ad un traffico molto confuso e impegnativo. Prendiamo alloggio nella guest house che aveva già ospitato nei giorni scorsi Andrea e Claudia. A pochi metri dalla nostra residenza mongola sorgeva il ristorante Marco Polo dove ci è capitato di mangiare nel 2008. Come spesso accaduto in questo viaggio, scopriamo con amarezza che anche questa realtà non esiste più. Decidiamo di ripiegare in un ristorante uzbeko per mangiare shasliki di carne di montone, poi piccola passeggiata in centro città propedeutica alla destinazione finale della giornata: il letto.
A metà mattinata è il momento di prendere una decisione che potrebbe influenzare la giornata. La strada più breve segnalata dai nostri telefonini, duecentocinquanta chilometri invece che cinquecento, è appena riportata nelle mappe stradali. Il rischio ci affascina e come al solito scegliamo di percorrere questa nuova tratta che ci permette di risparmiare carburante e ci regalerà certamente emozioni. Infatti la prima sorpresa è non incontrare edifici in muratura, ma solo in legno, per almeno cento chilometri. La seconda è vedere l’asfalto precario trasformarsi in pista di terra battuta nei boschi di betulle. La terza è cercare di evitare le profonde buche senza scontrarsi con cavalli, mucche, pecore e fauna selvatica. In tutto questo non ci accorgiamo del cambio di fuso orario al non segnalato confine tra Transbajkalia e Buriazia, dove l’orologio deve tornare indietro di un’ora.
Lunghissima la sosta presso la parte russa del confine dove la disorganizzazione regna sovrana. Sorprendentemente i doganieri decidono di dividere in due gruppi coloro che aspettano. I mongoli da un lato e i russi dall’altro. Essendo solo tre le auto russe e almeno venti quelle mongole, decido di unirmi a quelli somaticamente più simili a me. Questa è la svolta del pomeriggio, grazie alla quale riusciamo a guadagnare molte posizioni ed anticipare anche le procedure della parte mongola. Alla fine le ore di sosta saranno cinque comprensive di assicurazione per l’auto (un mese a circa 25 euro) e altre tasse ecologiche per complessivi cinque euro.
. Infatti, una volta rientrati nella capitale mongola con il capospedizione Guido ed il fedele Bruno, soggiorneranno nuovamente lì avendo riservato una quadrupla ad un prezzo speciale.
questa volta, complici le ore di luce, di godere del panorama circostante: valli che si alternano a zone montuose, villaggi di case in mattoni e legno che cedono il posto alle tipiche yurte, mandrie di buoi e gruppi di cavalli selvaggi.
acquitrinose e paludose. Il ritmo era di meno di tre chilometri al giorno. La leggenda narra che dopo circa 300 chilometri le moto fossero ormai inutilizzabili e che grazie ai lavoratori di una miniera furono rimesse in sesto. Altri cento chilometri, e i nostri eroi rinunciarono all’impresa caricando le moto sul treno. Peccato che in realtà mancassero solo un paio di valli e poi avrebbero potuto seguire il fiume che passa proprio da Erofej Pavlovic e da lì raggiungere facilmente la strada vera a Skovorodino. Va precisato che la P-297 percorre 2165 chilometri
completamente nuovi, evitando di sovrapporsi ai tratti di strada precedentemente esistenti, anzi spesso allontanandosi molto dal precedente percorso.
In tutte le poche stazioni di rifornimento presenti ci sono file molto lunghe visto che molti automobilisti non possono aspettare quelle successive a cento o duecento chilometri di distanza. Questo fatto ci fa apprezzare ancora di più la presenza del diesel-metano che ci permette di sostare per rifornirci di gasolio ogni 1400-15000 chilometri invece dei consueti 700-800 che il nostro veicolo senza metano avrebbe come autonomia.
Il risveglio di Andrea e Claudia all’alba è reso lieto dal panorama fiabesco del deserto del Gobi che scorre sotto le rotaie del treno: mandrie di mucche, cavalli allo stato brado e le yurte, tipiche tende dei nomadi mongoli.
raggiungere l’indomani la città di Sükhbaatar, meta definita per il ricongiungimento con il team1.
Presso la città di Novoburejskij, dove sorge un importante ponte e diga sul fiume che porta lo stesso nome della città, vi è un grande monumento dedicato al completamento della P-297, che ha permesso la circolazione stradale da Mosca a Vladivostok fino a quindici anni fa impossibile. Qui decidiamo di fermarci a fare una foto visto che nel viaggio di andata il piazzale era pieno di camion. Tra le moto parcheggiate ne notiamo una con targa italiana. Sono Alex e Roswitha da Bressanone, impegnati in un quasi giro del mondo per festeggiare la pensione. Sono partiti il primo maggio e vengono dall’Asia centrale dopo aver attraversato Turchia e Iran. Fotografiamo le nostre auto e moto assieme a circa 12.000 chilometri dalla strade italiane.
Poco più avanti avviene, all’economico kafe Tranzit, il pranzo di oggi. La scelta del luogo non è stata casuale. All’andata ci eravamo persi un luogo interessante che sorge molto vicino a dove stiamo mangiando, il nuovo “Cosmodromo Vostochnyj”. Ciolkovskij, città intitolata allo scienziato russo tra i pionieri della cosmonautica, è una zona chiusa ed ospita il nuovo cosmodromo russo che nel lungo periodo dovrebbe sostituire quello storico di Bajkonur per ridurre la dipendenza dalla base ex sovietica oggi in Kazakhstan. In passato, e con un nome diverso,
questa era una base missilistica. Naturalmente è impossibile avvicinarsi e ci limitiamo a raggiungere il primo posto di blocco situato a 23 chilometri dalla base. Da segnalare che nessun cartello indica la presenza del luogo che è assolutamente nascosto nella fitta vegetazione della taiga circostante. L’emozione di lasciare per pochi metri la P-297 con la speranza di imbarcarsi per una missione spaziale finisce dopo qualche centinaio di metri davanti a severi cartelli di divieto scritti pure in inglese. Foto di rito con la nostra Hilux a diesel-metano che per il
momento non partirà per lo spazio. L’unico modo per vedere da vicino la rampa di lancio è osservare uno dei due lati della nuova banconota da 2.000 rubli.
giusto il tempo per contrattare il miglior prezzo per un passaggio utile a varcare la frontiera e raggiungere la ridente cittadina di Zamin Uud. Il simpatico diciottenne mongolo con il quale viene intavolata una trattativa parla un buon inglese e si definisce un comodo trasferimento in minivan al costo di 60 yuan a testa. A dieci anni di distanza Erenhot si rivela una tipica cittadina di confine, nodo di interscambio di merci prevalentemente dalla Cina verso la Mongolia. Con piacere, a differenza dei cinesi, i mongoli si dimostrano molto più inclini a comunicare con gli
stranieri in inglese agevolando non di poco le piccole operazioni della giornata, quali l’acquisto di una sim-card mongola e i biglietti del treno per Ulanbator (24.600 tigrit mongoli pari a circa 8 euro). Sarà la seconda notte consecutiva che i membri del team 2 passeranno viaggiando su un mezzo di trasporto. Il treno, nonostante un aspetto di primo novecento e seppur privo di aria condizionata, ha delle confortevoli e pulite cuccette che renderanno la traversata del deserto del Gobi più agevole rispetto a quella fatta dieci anni da Guido ed Andrea a bordo della mitica Fiat Marea.
Il tempo di una rapidissima colazione ed una non meglio precisata amica di Mr. Wang preleva Guido dall’albergo per accompagnarlo alla stazione di confine tra Cina e Russia. Per questa missione non viene chiesto alcun compenso, cosa abbastanza strana da queste parti. Guido viene lasciato davanti al cancello che aprirà alle 8 del mattino dell’ora di Pechino, corrispondente alle 10 di Vladivostok. Questo significa che perderà, anche nella migliore delle ipotesi, almeno due ore. Alla fine del percorso di attraversamento le ore perse saranno ben otto… L’attesa è allietata dall’alzabandiera cinese e una serie di canzoni nella lingua locale, tra cui si riconoscono le melodie di “Bella Ciao” e de “L’internazionale”.
pari a circa 25 euro, ottenendo in cambio anche l’animazione nel bus e l’assistenza per compilare i moduli di confine. Tutto in cinese, naturalmente. Cina e Russia sono ai primi posti nel mondo nel riuscire a burocratizzare tutto, forse anche per questo la fila dei bus scorre a rilento in una dogana aperta appena otto ore al giorno, senza pausa pranzo, come recitano i cartelli. Mentre noi siamo a cavallo del confine in attesa che i russi alzino la sbarra, dalla stazione di frontiera cinese arrivano turisti, accompagnati da militari, per fare foto sulla linea di confine assieme al cippo che segnala dove finisce la Cina e inizia la Russia. Qualcuno si spinge a salire sulla linea rossa disegnata nell’asfalto che in teoria non dovrebbe essere superata.
A causa del fuso orario il festoso ricongiungimento tra Guido e Bruno avviene a metà pomeriggio. Il tempo di recuperare il nostro amato veicolo nel caro parcheggio dell’albergo, cambiare denaro e sistemare i bagagli e siamo pronti a partire evitando di investire il migliaio di cinesi che popolano Kraskino in attesa che un nuovo pullman, dopo quello del confine, li porti fino a Vladivostok. Ancora con l’ausilio del diesel-metano percorriamo rapidamente i circa duecento chilometri che ci separano da Ussurijsk, sede odierna di tappa. L’Hotel Nostalgy ci rivede dopo appena dodici giorni e siccome l’ospitalità e la cena furono buone abbiamo pensato di ripetere l’esperienza, utile a rimettere in ordine le idee in vista delle prossime lunghe giornate. Avevamo valutato di raggiungere, circa cento chilometri più avanti, l’interessante Hotel Fort Cement a Spassk-Dalnyj, ma il rischio di non trovare posto ci ha fatto desistere. Il problema principale dei prossimi giorni sarà, oltre che gestire le energie, anche trovare posti per dormire nei rari hotel lungo il percorso. L’unico reale vantaggio di aver percorso questa strada due settimane prima è conoscere gran parte di quello che ci aspetta.
Dopo aver invocato aria fresca per una settimana circa, una leggera pioggia inaugura la penultima giornata pechinese, quella che da programma doveva essere dedicata alla visita della Grande Muraglia, una delle sette meraviglie del mondo. Dopo qualche momento di esitazione, i componenti del team 2, Andrea e Claudia, decidono ugualmente di affrontare le circa tre ore di spostamenti che li separano dal sito turistico, pur non sapendo se le condizioni meteorologiche consentiranno loro di godere appieno dell’escursione. Fortunatamente, il cielo nuvoloso non impedisce la visione del “gigantesco Drago” che si snoda per oltre sei mila chilometri lungo quello che un tempo era il confine settentrionale dell’impero. La visione è senza dubbio spettacolare, nonostante il sito scelto per l’escursione, quello di
Badaling per l’esattezza, sia uno dei luoghi più affollati del pianeta! L’area è meta soprattutto di un turismo locale, ma nonostante le migliaia di persone e qualche inevitabile fila, l’organizzazione degli spostamenti con mezzi pubblici risulta molto economica ed efficiente, con autobus che collegano Pechino e Badaling in partenza a ciclo continuo.